Adesso è il momento dei nati tra il 1995 e il 2012, ovvero tra la quotazione in Borsa di Netscape e l’anno in cui la quota di americani che possedeva uno smartphone ha superato il 50 per cento. iGen li ha battezzati Jean Twenge, psicologa alla San Diego State University, prendendo a prestito il prefisso tipico dei più iconici apparecchi Apple, nel suo recente Iperconnessi (Einaudi). A differenza dell’iPhone, venuto al mondo (2007) quando i più grandi di loro erano alle medie e l’Ipad, messo in produzione (2010) quando sedevano nei banchi del liceo, questi ragazzi sarebbero decisamente meno fortunati dei loro Lari e Penati merceologici.
Anzi, proprio a causa dell’influenza loro e dei social media, stando al sottotitolo crescerebbero «meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti».
Tanta roba, forse troppa. Dopo Internet ci rende stupidi? di Nicholas Carr dove il punto di domanda era solo uno scrupolo editoriale subito obliterato nel testo, si tratta di uno degli atti d’accusa più virulenti nei confronti degli effetti della tecnologia digitale sulla nostra psiche. Ne abbiamo parlato con l’autrice al telefono dalla California.
Si può davvero impostare l’equazione secondo la quale più tempo trascorso davanti ai monitor di pc o telefonini, uguale a meno felicità?
«Purtroppo si può. Gli ormai numerosi dati disponibili negli Stati Uniti al proposito ci consentono di stabilire questo nesso. I quattordicenni che passano 10 o più ore alla settimana sui social hanno il 56 per cento più probabilità di dichiararsi infelici rispetto ai coetanei che ci passano meno tempo».
E perché?
«I motivi sono tanti, mi limito a citarne un paio. Intanto perché l’uso eccessivo dello smartphone di notte interferisce negativamente con il sonno, precondizione di ogni benessere psichico. E poi ricordo che, dal 2000 al 2015, il numero di ragazzi che hanno passato quasi quotidianamente del tempo dal vivo con gli amici si è ridotto di oltre il 40 per cento. Il fatto di seguirli su Snapchat non è nemmeno comparabile nel favorire la loro crescita psichica».
Qual è il limite oltre il quale il tempo trascorso davanti a un apparecchio elettronico nuoce a un giovane?
«Io direi due ore al giorno.
L’esperienza reale è ovviamente molto diversa. Le stime variano, ma vari sondaggi indicano per il mio Paese un consumo di almeno 5-6 ore al giorno. So di stime analoghe per la Gran Bretagna e spero che i vostri numeri siano meno pesanti».
Stando all’Ucla Loneliness Scale, il questionario con cui è possibile autodiagnosticarsi la solitudine, gli iGen si sentirebbero più soli di tutte le generazioni precedenti. Non è paradossale per il combinato disposto di un oggetto, il telefonino, che doveva connetterci con tutti e di un’infrastruttura, Facebook, che ha fatto della moltiplicazione degli “amici” la sua missione aziendale?
«A prima vista lo è, ma non deve sfuggirci che i social media ci mettono in connessione in maniera molto superficiale. Ciò che si è guadagnato in quantità si è perso in qualità. È un tipo di comunicazione più povero, dove si perdono gli indizi visivi delle espressioni che le faccine non riescono a compensare. E non c’è la fisicità».
Certo, ma è anche vero che ogni nuova tecnologia della comunicazione ha sempre suscitato preoccupazioni che talvolta si sono risultate esagerate: perché stavolta è diverso?
«Intanto perché nessuna tecnologia precedente era così portatile, e quindi ubiqua, come gli smartphone. Potevi avere un telefono fisso in camera da letto, ma non dentro il letto come succede con questi ragazzi. O quattro televisori in casa, ma non portarteli dietro. Uno smartphone è tutte queste cose, e molte altre ancora, ed è costantemente con te».
Temo che non si possa contare sul disarmo unilaterale da parte dei ragazzi, dunque cosa devono/possono fare i genitori per proteggerli?
«La prima regola è che gli smartphone, nottetempo, non devono entrare in camera da letto.
Con i più grandi si può tentare un’interlocuzione. Con i più piccoli un aiuto viene dalla tecnologia stessa, vale a dire app che spengono automaticamente il telefono dopo una certa ora, tranne per le chiamate. Io stessa ho contribuito a scrivere una lettera ad Apple, co-firmata dai fondi pensione degli insegnanti e altri investitori, per chiedere migliori controlli che aiutino i genitori. Android ne ha introdotti alcuni nelle settimane scorse. Qualcosa si muove».
Lei stessa ha tre figlie adolescenti: le danno retta su questo regime mediatico?
«I compagni di quella di 11 hanno già il telefono, mentre lei no. Quella di 14 ne ha uno basico, di quelli che chiamano dumb phone. A un certo punto avevo comprato un tablet per ognuno, poi man mano che procedevo con lo studio per questo libro glieli ho requisiti. Non è stato il dramma che temevo. La prima volta che gli dici di spegnere dopo un film si lamentano. Alla sesta ti dicono: ok, mamma. È il mestiere di genitore. D’altronde anche Steve Jobs limitava il tempo che i figli potevano passare con le sue creature».