Corriere della Sera, 26 giugno 2018
La magia di Chichita Calvino incantava i bimbi
Leggo un romanzo argentino, una storia di iniziazione: un ragazzino ammira i gauchos, riesce a intrufolarsi nel loro mondo, fa la loro vita sotto la protezione del mitico Don Segundo Sombra e beve il mate. Ma come sarà mai questo mate che ricorre ogni tre pagine? Mi informo dall’unica persona di nazionalità argentina che conosca, la vedova di Italo Calvino, nata e cresciuta a Buenos Aires. Il suo nome è Esther, ma tutti la chiamano Chichita, un vezzeggiativo che le impose una tata messicana, mi pare, e che poi restò. È una donna piccola, molto lentigginosa, rossa di capelli e con occhi di rara luminosità. Al collo o ai polsi o alle dita porta sempre qualche squisito gioiello vittoriano. Ebrea, poliglotta, lavorò a lungo per l’Unesco, vivendo un po’ dappertutto in Europa fino all’incontro con Italo. Insieme a lui si stabilì a Roma, poi a Parigi, poi di nuovo a Roma. Ma d’estate è mia vicina nella pineta toscana dove anch’io ho una casa. La sua è una villa con un gran prato che digrada verso una piscina incorniciata da ampie distese di cotto, un cotto specialissimo, cercato a lungo fra mille altri cotti. Così è Chichita: esige sempre il meglio assoluto, dal ferro da stiro al cespuglio ornamentale, tipico vizio argentino, ammette lei stessa ridendo.
Dopo la morte di Italo mi considerò per anni il suo migliore amico. Mi passava romanzi polizieschi e non, di cui è sempre fornitissima per via di un network sterminato di informatori internazionali, e mi invitava a casa a vedere cassette di film che m’erano sfuggiti, Full Metal Jacket, per esempio, o musical del 1934 in cui appariva in una parte minore Eddie Cantor, di cui Borges aveva scritto una breve recensione.
Una notte mi telefonò ironicamente disperata. Era sola, stava malissimo, non sapeva che fare. Corsi a casa sua e, con un’amica comune convocata anche lei d’urgenza, cominciammo a parlare del 118. Ma la cocciutaggine di Chichita è leggendaria. Si sentiva sempre peggio, non si capiva cosa stesse succedendo dentro di lei, ma l’idea dell’ambulanza, dell’ospedale di Grosseto, non la poteva mandar giù. Dopo più di un’ora cedette, salì su un’ambulanza come sul cellulare dei carabinieri, l’accompagnammo a Grosseto, un letto in una stanza singola fu trovato e noi ce ne tornammo a casa che albeggiava.
Dopo quella notte del 118 Chichita prese a dire che le avevo salvato la vita: «Guarda che dice che le hai salvato la vita», mi ripetevano. «Sarà», dicevo io, «ma insomma, ho poi solo fatto un numero di telefono».
Dopo un paio d’anni ci ritrovammo attorno alla piscina, tra gloriosi cespi di petunie. («Sono petunie, no?», «No, no, figurarsi, queste sono le cosiddette Farfalle del Madagascar, il profumo si sente solo tra le undici e mezzogiorno»). Le chiesi: «Ma perché continui a dire che ti ho salvato la vita?». «Perché è vero» disse lei. E con un sorriso smagliante aggiunse: «E non te lo potrò mai perdonare». Umorismo sarcastico.
Tonfi clamorosi, strilli selvaggi, spruzzi da diluvio universale interrompevano intanto la nostra conversazione. Chichita aveva cominciato a invitare in piscina i miei due nipoti Matteo e Tommaso, la cui iniziale timidezza s’era sciolta al primo sguardo.
«Cosa fate oggi?», «Andiamo da Chichita». Tommaso, il più piccolo e il più sfacciato dei due, le telefona quasi ogni giorno: «Possiamo venire?». Possono venire sempre, «Possiamo portare anche Filippo?». Possono portare anche Filippo, Alberto, Gala e il Ninno.
Una banda di bambini che gioca dentro e fuori da una piscina offre uno spettacolo essenzialmente sacro. Fa pensare alla famosa comunione tra anima e corpo, alla prodigiosa vitalità della vita. Durante queste scene di esuberanza panica e parecchio rumorosa, Chichita se ne sta imperturbabile sul cotto della piscina fumando le sue Gauloises senza filtro, che tengono bellamente in gioco (lo sa lei, lo sappiamo tutti) il 118. Ogni tanto uno dei bambini la chiama: «Guarda Chichita!». E si produce in un tuffo spettacolare. Chichita guarda e si capisce benissimo che sta pensando pensieri leopardiani. Godetevi questi momenti, bambini, non sarete mai più così felici. Ma non glielo dice, anche perché non è esattamente vero.
Di lì a poco, uno degli ospiti comincia a uscire dall’acqua tutto tremolante, con la pelle d’oca e le labbra viola, si asciuga, se ne sta lì intontito per due minuti. Allora Chichita sale in cucina e tutto il branco la segue con fretta famelica.
È l’ora della merenda (o scorpacciata come nelle fiabe di Italo), una cerimonia non troppo dissimile dalla distribuzione del cibo agli animali dallo zoo: crostate, torte, creme, cioccolato, formaggi (specialissimi) al forno, e tutte le bevande con o senza bollicine reperibili in un supermercato. Chichita fa le parti senza sbagliare di un grammo in più o in meno, ben sapendo quanto siano sensibili i bambini all’equità delle briciole; e io mi chiedo come la vedano, quegli allegri lupi che sembrano a digiuno da una settimana. Una mamma? No. Una nonna, allora? Nemmeno. Una sorella maggiore, una zia? Chichita non «scende» al loro livello, né li tratta come piccoli adulti. Ha quel dono, ben più raro del suo cotto e dei suoi braccialetti vittoriani, di parlare d’istinto la loro lingua, sopprimendo ogni interferenza, ogni distanza. Diventa una di loro in tutto e per tutto, e loro tranquillamente se l’annettono come si annettono i pini, il mare, la marmellata, la notte.
Chichita è una di quelle cose che non si discutono, ci sono e basta.
Quando la frotta se ne va, le gridano «Adiòs». E lei ha insegnato a Tommaso uno scherzetto della sua infanzia argentina, si tratta di rispondere: «Cuando te veo me vien la tos». E quello, beato, glielo grida ancora mentre già pedala via sulla bicicletta.
Adiòs adiòs cuando te veo me vien la tos.
L’anno scorso a Natale è arrivata una cartolina: «A Matteo e Tommaso, i miei migliori amici» diceva. Io per indole non sono geloso, ma resta pur sempre il fatto del 118, dell’ambulanza, di quel cielo alabastrino di Grosseto, all’alba. Non per dire, ma non ero quello che le aveva salvato la vita?
Quanto al mate, è un infuso eccitante che si fa con un’erba locale e serve a «tenersi su», come il caffè. È tra l’asprigno e l’amarognolo, parrebbe, ma ci si può pure mettere lo zucchero. Il sapore non dev’essere un gran che, altrimenti Chichita lo avrebbe già preparato per i suoi migliori amici in un apposito bollitore d’argento vittoriano scovato a Portobello Road.