Corriere della Sera, 25 giugno 2018
La battaglia delle etichette
Novantasei consumatori su cento vorrebbero conoscere l’origine della materia prima di un prodotto alimentare, prima di acquistarlo. Per questo, l’anno scorso, i nostri ministeri dell’Agricoltura e dello Sviluppo economico hanno finalmente deciso che a partire dal 2018, i produttori degli alimenti base più consumati sono obbligati a scrivere sull’etichetta se la materia prima è stata prodotta in Italia, oppure importata dal mercato interno europeo, o da quello extracomunitario. Oggi quindi i consumatori italiani, al supermercato, possono leggere da dove arriva il latte, dove è stato coltivato il grano con cui è stata fatta la pasta, dove è cresciuto il pomodoro delle salse. Siamo l’unico Paese europeo ad avere un obbligo di trasparenza così stringente, ma durerà poco.
Il no dei produttoriAppena emanato il decreto, l’associazione italiana dei pastai (Aidepi), a cui sono iscritti tra gli altri Barilla, Divella, Felicetti e Garofalo, ha subito fatto ricorso al Tar del Lazio: «Si vuole indurre il consumatore a preferire la pasta in base all’origine della materia prima impiegata, ma l’origine del grano non è sinonimo di qualità».
Alla fine il Tribunale ha respinto il ricorso ritenendo «…prevalente l’interesse a tutelare l’informazione dei consumatori». Vale la pena di ricordare che la nostra industria della pasta vale 4,7 miliardi di euro, che la pro-duzione italiana di grano è di 4,3 milioni di tonnellate e che ne importiamo da tutto il mondo altri 1,74 milioni di tonnellate. Un tema non banale, se i consumatori si mettono in testa che «italiano è meglio», ad esempio perché abbiamo regole severe sull’uso di pesticidi e diserbanti.
Anche la «Food drink Europe», la lobby dell’agroali-mentare che riunisce i marchi Danone e Nestlé, insieme alle sigle di Confindustria, aveva reclamato presso la Commissione europea: «I membri considerano con preoccupazione le tendenze a rinazionalizzare determinate norme e politiche nel settore». In altre parole: «Sull’argomento deve decidere la Commissione e non un singolo Paese».
Il nuovo regolamento europeo Mentre l’industria agroalimentare italiana, nonostante i «mal di pancia», si sta adeguando con l’aggiornamento delle etichette, il 28 maggio, a Bruxelles, il presidente Juncker firma il nuovo regolamento europeo, che azzera il decreto nazionale. Dal 1° aprile 2020 sarà obbligatorio indicare da dove viene la materia prima solo quando «il Paese d’origine è indicato attraverso illustrazioni, simboli o termini che si riferiscono a luoghi o zone geografiche». In pratica vuol dire che, fra un paio d’anni, in Europa, gli unici vincolati a dichiarare la provenienza dell’ingrediente principale, saranno le aziende che mettono sulla confezione dei «tratti» che ne evocano l’origine. Per fare un esempio: quando sulla scatola di pasta c’è scritto «100% italiana», il produttore sarà obbligato a dichiarare se la semola è tutta italiana o una parte è importata dalla Romania o dal Canada. Se invece la confezione non lascia intendere un preciso legame con un territorio, basta scrivere: «Ue» oppure «non Ue» o «Ue e non Ue» o anche niente. In sostanza, un regolamento che mette in riga chi vuole spacciare per italiano un prodotto che italiano non lo è, o non del tutto, ma lascia a tutti gli altri maglie larghe.
Il giorno delle votazioni al Berlaymont soltanto Germania e Lussemburgo si sono astenute dal voto, mentre l’Italia, che si era sempre dichiarata contraria, si è poi schierata a favore della nuova etichetta.
La voce (e le scelte) dei consumatoriL’agroalimentare è l’eccellenza italiana nel mondo. Soltanto l’industria della trasformazione del pomodoro vale 3 miliardi, e rappresenta il 47% del mercato comunitario. Il riso, con una produzione di 1,50 milioni di tonnellate, conta il 50% di tutta la produzione Ue. La filiera del latte nostrana vale oltre 15 miliardi di euro. Gli italiani, che consumano a testa ogni anno 24 kg di pasta, 30 kg di salse e 53 litri di latte, fra i 28 Paesi membri sono i cittadini più coinvolti in questa vicenda. Anche se una piccola fetta di mercato sceglierà la spesa guardando solo al prezzo, le indagini del ministero dell’Agricoltura dicono che il 96% dei consumatori ritiene importante un’etichetta dove sia scritto in modo chiaro e leggibile l’origine dell’alimento base su tutti i prodotti alimentari. Secondo le ricerche dell’Europarlamento l’84% dei cittadini europei ritiene necessario indicare l’origine del latte, mentre il 90% vuole un’etichettatura trasparente per gli alimenti trasformati.
Cosa succede dal 2020? Oggi le più grandi associazioni di categoria della Confindustria dicono che comunque non cambierà nulla. Il presidente di Aidepi, Riccardo Felicetti, dichiara: «Continueremo a fornire le stesse informazioni di oggi; non abbiamo alcuna intenzione di tornare indietro». Anche il direttore di Anicav Giovanni De Angelis mette le mani avanti: «Stiamo immaginando di mantenere questa posizione, indipendentemente dal fatto che la regola Ue la renda facoltativa». La pensa uguale il direttore di Assolatte Massimo Forino: «Ci sarà scritto non più per legge, ma per scelta aziendale». Si associa anche Roberto Carriere (Airi): «Una volta che abbiamo scritto “riso Italia” non vedo perché dovremmo toglierlo».
Vedremo. Per ora, chi sgarra rischia una multa fino a 9.500 euro e Coldiretti promette battaglia. Anche il Parlamento europeo, che già nel 2016 si era espresso a favore di etichette trasparenti sull’origine del prodotto, ha riaperto il tema in Commissione agricoltura, con l’eurodeputato Paolo De Castro: «Mi auguro che il nuovo governo sostenga lo scontro con gli altri Paesi e li convinca. Lo vogliono i consumatori».
Già, i consumatori, queste galline dalle uova d’oro così facili da ingannare, hanno però il potere di orientare le politiche, ogni volta che scelgono «cosa» mettere nel carrello della spesa.
(ha collaborato Carla Falzone)