Corriere della Sera, 25 giugno 2018
Uganda, la folle guerra ai leoni che vivono sugli alberi
Neppure quelli che salgono sugli alberi riescono a salvarsi. Neppure i rari «leoni arrampicatori» possono nulla contro il veleno degli uomini. Dopo millenni di coabitazione, i re della foresta stanno perdendo la battaglia contro i nemici di sempre. Ne sono rimasti ventimila in tutta l’Africa. Un secolo fa erano 200 mila. Negli ultimi tre decenni sono calati dell’80% e il loro regno è sempre più ristretto. Non sono le lance dei Masai a farli fuori, ma due cause non slegate fra loro: la scomparsa delle prede e i letali carbammati, fitofarmaci usati tra l’altro come erbicidi in agricoltura.
Quella sostanza prodotta da industrie occidentali è diventata il killer più diffuso dei grandi carnivori. All’inizio di giugno nove sono morti per un avvelenamento ai confini del Parco dei Serengeti in Tanzania, altri otto hanno perso la vita nelle zone protette ai bordi del Maasai Mara in Kenya. Ad aprile era toccato a tre leonesse e otto cuccioli nel Queen Elizabeth National Park in Uganda, uno dei due luoghi dove i più grandi felini della savana hanno imparato ad arrampicarsi sugli alberi (principalmente per riposare). Adesso di leoni «arboricoli» nel parco ne rimangono soltanto 19. I cuccioli e le mamme sono stati uccisi con quel veleno che i locali chiamano Two Step, così potente che la vittima non riesce a fare più di due passi. Era nascosto in una carcassa di mucca che qualcuno aveva piazzato con il proposito di uccidere. L’utilizzo di Due Passi ha cominciato a prendere piede una decina di anni fa tra i guerrieri Maasai, che hanno imparato su Internet dai pastori scozzesi che volevano proteggere le pecore dalle aquile.
Ci sono molte ragioni dietro la strage dei leoni, spiegano i conservazionisti di The Big Life Foundation citati dal Daily Telegraph. Alcune comunità li uccidono per protestare contro le interferenze del governo a livello locale o contro la corruzione di politici che non condividono i proventi del turismo. Ci sono gruppi che chiedono di essere pagati per non cacciare e pastori che ammazzano «per vendetta» o per fermare i predatori che attaccano le mandrie. Per ogni capo di bestiame ucciso, Big Life paga ai proprietari 250 euro di compensazione. Anche grazie a questa rete, racconta il fondatore Richard Bonham, il numero dei leoni all’interno dell’ecosistema di Amboseli alle pendici del Kilimangiaro è arrivato a 200 unità: 15 anni fa erano rimasti in quindici.
Serve un progetto trasparente che coinvolga comunità locali, governi e conservazionisti. Altrimenti si calcola che entro il 2050 i leoni in Africa saranno estinti secondo le stime di Wwf e African Wildlife Foundation. Gli elefanti potrebbero sparire nel giro di un decennio, le giraffe sono calate del 40% negli ultimi 15 anni (in totale, oltre 4 mila specie rischiano di scomparire nel prossimo decennio nel mondo). Alla base della minaccia ai leoni non c’è tanto la richiesta di trofei o di materia prima (come l’avorio degli elefanti). Non è la caccia grossa, ma quella minuta. E la continua perdita di habitat che, per quanto riguarda i leoni, si traduce in mancanza cronica di prede e dunque di cibo. I ricercatori dell’Università di Oxford e di Goteborg hanno paragonato con modelli matematici il mondo di oggi a quello che portò all’estinzione di quattro grandi felini sulla Terra 12 mila anni fa. E questo vale anche per le tigri dai denti a sciabola: fu la mancanza di prede a causarne la scomparsa.
Calano gli erbivori. I leoni allargano il loro raggio di azione e si scontrano con gli uomini, che in numero crescente si espandono e finiscono per piazzare il veleno Due Passi nella savana. È una schematizzazione un po’ semplicistica, ma non troppo lontana dalla realtà. Se i leoni sono patrimonio dell’umanità, salvarli è anche compito nostro.