Erano gli ultimi anni di Lorenzo de’ Medici: il quale esercitò un’immensa influenza sull’arte e la vita di quel tempo. « Redeunt Saturnia regna… surget gens aurea mundo », si diceva.
Michelangelo lavorò da giovane nel giardino dei Medici a San Marco, come raccontò nel 1553 Ascanio Condivi nella sua bellissima vita ed ora, in un libro molto ricco e informato, Giulio Busi ( Michelangelo. Mito e solitudine del Rinascimento,
Mondadori). Il giardino era «adornato di varie statue antiche e figure». Lorenzo «accarezzava», accendeva e spronava Michelangelo: lo chiamava molte volte al giorno, mostrandogli le sue pitture, le sue sculture e i suoi cammei, le meduse e le sfingi. Quell’epoca d’oro finì.
Preceduto da un fulmine sulla cupola di Santa Maria del Fiore, nella notte dell’8 aprile 1492, alle quattro di mattina, Lorenzo morì, e ciò fu, per Michelangelo una sciagura personale: «per molti giorni non potette fare cosa alcuna». «Fu denotata questa morte – scrisse Guicciardini – come di momento grandissimo da molti presagi: era apparita poco innanzi la cometa, erasi udito urlare lupi: una donna di Santa Maria Novella infuriata avea gridato che un bue con le corna di fuoco ardeva la città; eransi azzuffati insieme alcuni leoni, e uno bellissimo era stato morto dagli altri».
Michelangelo aveva diciassette anni. Come racconta Ascanio Condivi, «non era tanto alto, da giovane ammalato e cagionevole, la testa un po’ grande, e due occhi piccoli macchiati di scintille gaiette ed azzurre».
Aveva le spalle larghe: ma il resto del corpo e specialmente le labbra, sottili. Secondo gli amici, sino alla fine della vita, anche in anni gravi e difficili, fu un eccellente e divertente conversatore, sebbene non si confidasse volentieri. Come scrisse l’Aretino, amava il mistero e il silenzio. Aveva una memoria tenacissima: tanto – diceva agli amici – che «avendo dipinto tante finzioni, non ne ho fatta mai una che somigliasse ad un’altra».
Amava ogni cosa bella: un bel cavallo, un bell’uomo, una bella montagna; e «le ammirava con meravigliosa attenzione, come l’ape raccoglie il miele da tutti i fiori».
La più antica statua di Michelangelo che ci sia giunta è la Zuffa de’ centauri che gli venne ispirata da Angelo Poliziano.
Studiò l’anatomia come forse nessuno nella sua epoca: scorticava i corpi, per studiare i muscoli e le vene. Come racconta Edgar Wind in un bellissimo libro ( Misteri pagani del Rinascimento, Adelphi) amava i falsi: statue che sembrassero antiche; le tingeva e le invecchiava col fumo, in modo che si credesse che appartenevano all’età classica.
Proprio per questo amava l’incompiuto – l’incompiuto che risveglia in chi vede il senso dell’indefinito e dell’infinito. «Si conosce nell’imperfezzione della bozza – scrive stupendamente il Vasari – la perfezzione dell’opera… Ha avuto l’immaginativa tale e sì perfetta, che le cose propostosi nella idea sono state tali che con le mani, per non poter esprimere sì grandi e terribili concetti, ha spesso abbandonato l’opere sue, così come ne ha guaste molte… io so che innanzi di morire abbruciò gran numero di disegno, acciò nessun vedesse la fatica durata da lui». Forse, per far dimenticare di non essere vittima nemmeno dell’incompiuto, dipinse la famosissima Madonna del Tondo Doni; che Roberto Longhi giudicò “il capolavoro assoluto di Michelangelo”; dove sembra inseguire da vicino l’impossibile perfezione. Quando, nell’agosto 1501 i responsabili dell’Opera di Santa Maria del Fiore gli commissionarono ilDavid, dovette trarre una nuova figura da un blocco di marmo già malamente abbozzato; e cercò, e riuscì, a trovare la perfezione nell’imperfetto e nell’impossibile. «Certo fu miracolo – commentò Vasari – di far risuscitare uno che era morto». Andava a Carrara a scegliere i marmi; e un giorno gli sembrò che doveva scolpire l’intera collina, assoggettando tutta la natura alla forza delle proprie mani. Passava mesi a cercare i marmi che gli si adattavano: Carrara era la sua vera patria. Amava il danaro: amava i papi sopratutto perché erano mecenati generosi: coltivò Giulio II, Clemente VI, che parlava di lui “con un’infinita affezione” e voleva che dipingesse solo per la chiesa; e Paolo III, che veniva a trovarlo mentre dipingeva la Cappella Paolina, arrampicandosi su una scala a pioli. Nel 1513 ebbe una grande visione: «essendo una notte al sereno, ed elevando gli occhi su al cielo, vide apparire in cielo un mirabile segno triangolare fuora dell’ordine e similitudine di ogni cometa consueta: era di un color splendente e rilucente, come una verga d’argento pulitissima o una spada brunita. La coda del segno si estendeva verso Firenze tutta di color di fuoco e nella sommità era biforcata e così lunga da raggiungere Firenze».
Nell’ultimo periodo della vita abitò a Roma, nella casa di Macel de’ Corvi, a piazza Venezia, dove ora sorge il palazzo delle Assicurazioni Generali. «È un caseggiato, con palchi, sale, chamere, terreno, orto, pozzo»: comodo per stiparvi i marmi e dedicarsi a diverse opere contemporaneamente. In quegli anni, Michelangelo lavorò moltissimo, quasi al di sopra delle forze umane: ci sembra impossibile che abbia immaginato e realizzato tanti progetti, come se, da solo, volesse costruire l’intera città di Roma. «Sono tanto ocupato – scriveva al nipote il 25 agosto 1541 ( Rime e lettere, a cura di Antonio Corsaro e Giorgio Masi, Bompiani) – che io non ho’ tempo di badare a voi, e ogni altra piccola cosa m’è grandissimo fastidio». Ora era lento, ora velocissimo. La pittura «non era la sua professione: ma la scultura»: o, meglio, non era mai «pictore né scultore né architetto, ma quel che voi volete»: chissà cosa. In ogni caso «si dipinge col cervello e non con le mani; e chi non può avere il cervello seco si vitupera». La pittura era «la fiamma del fuoco; la quale è più atta al movimento di tutte le cose». Era vecchio, diceva: «ogni ora potrebbe essere l’ultima mia»: «era – scrive Vasari – alle ventiquattro ore, e non nasceva pensiero in lui che non vi fusse sculpita la morte»; affascinato ed atterrito dalla morte. Nell’ottobre 1556 andò pellegrino: si avviò verso Loreto; ma si stancò e tornò a Roma con un compagno. Era solo, si sentiva solo e si lamentava di essere solo, sebbene volesse vivere da solo, nella sola compagnia delle arti.
Spesso era stizzito, irritato, furibondo, non sappiamo mai di che cosa. A volte era stanchissimo: poi, all’improvviso recuperava le forze. Gli pareva impossibile affrontare la grande impresa della Cappella Paolina.
Nel giugno 1544 era malato grave, sebbene dicesse che sperava «di vivere ancora qualche anno». Aveva il male della pietra e beveva moltissima acqua. Non riusciva a dormire.
Era sporco. Come racconta Condivi, portava «di continovo stivali di pelle di cane sopra lo ignudo i mesi interi, che quando li voleva cavare, poi nel tirarli ne veniva spesso la pelle». Come scrive D’Annunzio, «era incurvato, corrugato, col naso rencagnito, col gozzo sotto la barba caprina, e le unghie cresciute fuori dal tomaio degli stivali, con la fronte sudicia di colore». Scolpiva la Pietà Rondanini, una settimana prima di morire. «Fece testamento di tre parole, che lasciava l’anima su nelle mani di Dio, il suo corpo alla terra, e la roba ai parenti più prossimi». Dopo cinque giorni di malattia “due levato al fuoco e tre in letto”, morì mezz’ora prima dell’Ave Maria il 18 febbraio 1564.
Il 10 marzo fu portato a Firenze, «vestito con un robone di damasco nero, e con gli stivali e gli sproni in gambe ed in capo un cappello di seta all’antica col pelo lungo di felpa nera».