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 2018  giugno 25 Lunedì calendario

Gabriele Muccino: «Viviamo in un’Italia incattivita e amorale. Tutti sono contro tutti»

La scintilla è scoccata alla fine di una serata tra amici. Di quelle in cui non si smette di ridere e ci si sente, per incanto, esattamente come quando si era ragazzini: «Avevo finito di girare Padri e figlie, sono andato a cena da Giovanni Veronesi e ho riso talmente tanto che, tornando a casa, mi si è aperta dentro una voragine e mi sono chiesto “ma da quanto tempo è che non rido più così?”». È stato allora che Gabriele Muccino, dopo aver trascorso 12 anni negli Stati Uniti, ha iniziato la marcia di riavvicinamento all’Italia. Un Paese che ha trovato molto cambiato, non certo l’Eden, anzi tutt’altro, ma che resta la sede di un tesoro inestimabile: «Mi mancava il modo di vivere italiano, la convivialità, la condivisione di un certo tipo di umorismo. In Usa contano soprattutto due cose, “quanto hai” e “che cosa hai fatto ieri”, perchè dell’altro ieri non frega niente a nessuno». Eppure, anche lì, racconta il regista (premiato a Forte Village, in Sardegna, nell’ambito del nuovo festival «Filming Italy») c’è un rovescio della medaglia di cui, oggi, in Italia, si sente forte l’assenza.

Quanto è stato importante, per la sua carriera, il periodo americano?
«L’esperienza in Usa è irreplicabile, in Italia avevo avuto il primo grande successo con L’ultimo bacio, ma con La ricerca della felicità ho ottenuto una visibilità planetaria che mai mi sarei sognato di raggiungere. In quegli anni ho lavorato con Will Smith come battistrada e questo mi ha aiutato a costruirmi uno speciale bagaglio di professionalità».
Quali sono le caratteristiche più stressanti del mestiere di regista in America?
«A Hollywood la mortalità dei film è altissima, lavori per mesi a un progetto, poi succede che salti tutto e magari ti ritrovi a girare un film che in quel momento non avresti voluto fare. E poi continui a ricevere un sacco di copioni, che devi necessariamente leggere, sei in una spirale da cui è difficile uscire. Ho avuto voglia di tornare a girare film scritti da me».

È successo con «A casa tutti bene», andato benissimo.
«Ha incassato più di 10 milioni di euro, numeri straordinari per un film che non è comico. E che non ricade del tutto nella regola dei quattro quadranti».
Cioè?
«È un modo per individuare le fasce di pubblico e cercare di raggiungere il maggior numero di target. È la logica americana. I settori dei quadranti possono essere giovani e adulti, maschi e femmine... In genere se ne raggiungono al massimo due». 
Sta già lavorando al prossimo progetto?
«Ho iniziato ora a scrivere il nuovo film, racconterà tanta Italia di oggi, ma anche di ieri».
Diceva che ha trovato un Paese molto diverso da quello che ha lasciato. In che senso?
«Sono andato via nel 2005, c’era già Berlusconi che cominciava a fare i suoi pasticci, ma, nel complesso, il nostro era ancora un Paese ridente. Negli Usa era lo stesso, il vento della crisi ancora non si avvertiva, poi nel 2007 è arrivato lo tsunami finanziario, ma è stato proprio in quegli anni che ho visto all’opera lo spirito migliore della società Usa. Gli americani sono individualisti, ma non si lamentano mai e anche se si ritrovano da soli, sono capaci di darsi quel colpo di reni che li risolleva. Sanno che o fanno così o si ritrovano “homeless”». 
Da lontano, che cosa l’ha più colpita di quello che stava succedendo da noi?
«Leggere del “Vaffa day” è stato sconvolgente. In America se dici “fuck you” davanti ai figli piccoli sei considerato un untore e, se usi questa battuta più volte in un film, ti mettono subito il divieto ai minori. Di Grillo mi colpì moltissimo la violenza verbale».
E dell’oggi che cosa la tocca di più?
«Il nostro è un Paese verbalmente incattivito. Non riesco a capire questa logica del “tutti contro tutti”, fino al 2010, quando ho girato Baciami ancora, non c’era questa assoluta assenza di morale. Oggi si parla per slogan e alla fine sembra che tutti dicano le stesse cose. Ho ritrovato un Paese apatico, rancoroso, incapace di guardare avanti».
Anche un Paese politicamente diverso.
«Lo spostamento verso gli estremismi di destra non riguarda solo noi, ma un po’ tutti, da Trump in giù. Il problema è nel non andare oltre, il contrario di ciò che avevo visto in America. Lì, dopo la crisi, il Paese è ripartito, ho visto riaprirsi le saracinesche di negozi che erano stati chiusi con le sbarre di legno».
Perchè da noi non succede?
«Qui il futuro non è mai affidato agli individui, persiste l’idea dell’uomo forte che ci salverà. Siamo abituati alla de-responsabilizzazione, a essere gestiti dall’alto e poi a organizzarci, sotto il dominatore, per continuare a fare i nostri affari. È sempre stato così. All’estero sappiamo darci da fare, facendoci valere, a costo di enormi fatiche, ma da noi è così, e non mi pare che stia cambiando».