La Stampa, 25 giugno 2018
I bambini degli italiani in Svizzera come i messicani: “Allora al confine ci strappavano via dai genitori”
Gli orfani della frontiera avevano i capelli tagliati tutti uguali, come dei soldatini, senza ciuffi sulla fronte, e avevano dei vestiti che stavano sempre un po’ larghi. Ma gli occhi, erano gli occhi che li rendevano diversi. Avevano gli sguardi della solitudine. Oggi che sono tornati tutti insieme per una volta, non si sa perché quegli sguardi non li abbia portati via il tempo. Forse, non si possono cancellare. Erano i bambini che i genitori italiani erano costretti ad abbandonare di qua dal confine perché era vietato portarli con loro in Svizzera. Li raccoglievano dei frati e li mettevano in un collegio come questa Casa del Fanciullo a Domodossola. Il mondo si indigna per le gabbie di Trump in cui sono rinchiusi i bambini messicani senza permesso, ma appena 30 anni fa altri bambini si ritrovavano come degli orfani perché alla frontiera della Svizzera potevano entrare solo papà e mamma, forza lavoro necessaria alla Confederazione. Ed erano italiani.
Senza genitori e discriminati
Quei piccoli, strappati ai genitori, venivano cresciuti in collegi finanziati dallo Stato e gestiti da religiosi. Ce n’erano tanti, li avevano aperti a Domodossola, Ripatransone, Ala, Intra, Varese, Osimo e in altri posti ancora, per ospitare questi figli della povertà e del lavoro, che erano migliaia, sguardi appesi nelle foto e righe di lacrime sulle guance, come quelle che tratteneva Fabrizio Di Berardino: «A Domodossola eravamo squadrati come “i bambini di padre Michelangelo” con i pregiudizi della gente. Eravamo riconoscibili dal taglio di capelli, tutti uguali, e dai vestiti. A scuola c’erano due elenchi: uno degli alunni di Domodossola e uno della Casa del Fanciullo».
I vagoni usati come parco
Queste frontiere, di lacrime e di fatica, sono piene di storie come la sua. I genitori arrivati al confine con le loro valigie di speranza scoprivano che il posto c’era solo per chi lavorava e dovevano fare in fretta questa scelta drammatica, in cambio dello stipendio sicuro, perdendo per lunghi periodi i loro figli. Fuori dalle chiese, lasciavano i bambini con una borsa. A Domodossola veniva a prenderli padre Michelangelo, che li sfamò, aprì la casa del fanciullo, e poi anche una colonia estiva in un bosco vicino all’Alpe Devero. Il frate chiese pure aiuto all’unico «potente» che conosceva, il novarese Oscar Luigi Scalfaro, che era ministro dei Trasporti, che mandò un treno, rimasto qui, oltre la sua memoria, nel parco a Osso di Croveo, a ricordare con i suoi vagoni dismessi quell’aria arrugginita di un passato che abbiamo dimenticato troppo in fretta. Dicono che il tempo lenisca i dolori. Ma noi facciamo anche di più: cerchiamo di cancellarli.
Nascosti nelle case
Oggi gli orfani della frontiera sono tornati tutti qui per rispettare questa memoria. Walter Busato, 58 anni, dice che ne aveva solo tre, quando sua madre, che era una ragazza madre, cercò di tenerlo con sé, di nascosto, a Friburgo. In tanti facevano così e li nascondevano in casa: centinaia di bambini italiani hanno trascorso la loro infanzia senza vedere la luce del sole, senza frequentare le scuole. Hanno vissuto con la paura che da un momento all’altro potessero denunciarli e allontanarli per sempre dalla loro famiglia. La mamma di Walter si arrese dopo un po’ di tempo e preferì mandarlo a Domodossola, almeno avrebbe studiato. Oggi lui gestisce un negozio di gastronomia in Germania. Alla fine, è andata bene così. Ma se ci pensa, gli si strazia ancora il cuore.
Dario Scardarella ricorda che era uno dei più fortunati: «Mio papà in Svizzera faceva il ferroviere e così due volte al mese lo incontravo. C’erano bambini che magari non vedevano i genitori per mesi. Oggi vivo in Svizzera, ho quattro figli e ho imparato una cosa: se hai dei figli devi sempre tenerli con te, sempre e comunque».
La vicenda dei bambini di padre Michelangelo è iniziata negli Anni 60, quando gli italiani cominciavano a correre e scoprivano le distese di spiaggia sui mari, la musica dei mangiadischi, le code alle autostrade e quella strana aria di festa che arrivava con il sole. E lui giocava di nascosto in quella cucina spartana di Friburgo, ricorda Busato, «che faceva un gran freddo», cercando di non far rumore «se no ci scoprono». Quella legge, in Svizzera, che impediva ai lavoratori stranieri con permessi stagionali di portare con sé i loro figli, è rimasta fino al 1996, quasi ieri, seconda Repubblica cominciata, Prodi e Berlusconi. Tempi nostri. Non può essere un ricordo così lontano da averlo già dimenticato.
Eppure, a guardare questo treno della memoria, questo luogo della nostra storia di emigranti, c’è un senso di orgoglio dolente, come dice Germano Bacchetta, «per quello che eravamo e siamo diventati». Oggi i figli della frontiera sono tutti manager, commercianti, operai, casalinghe, insegnanti. E in quella stessa struttura di Domodossola che un tempo ospitava i figli degli immigrati vivono venti richiedenti asilo. Non è solo la storia che cambia. Perché la storia non è vero che cambia: qualche volta si ripete e fa sempre un gran rumore quando ci capita addosso. Ma non c’è mai nessuno che abbia voglia di ascoltarla.