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 2018  giugno 25 Lunedì calendario

Un sondaggio gela Renzi: il suo nuovo partito vale il 4%

Che fare del Pd? Se lo chiedono in molti, anche dentro un partito uscito pesantemente sconfitto dalle elezioni del 4 marzo e ora alle prese con l’enorme difficoltà, dopo cinque anni di governo, di imparare a fare opposizione in un quadro politico tutto nuovo, e assai allarmante per un centrosinistra finito ai margini.
Se lo chiede anche Matteo Renzi, che nelle settimane post-batosta elettorale ha accarezzato l’idea di divorziare da quella vecchia sinistra interna di derivazione post-Pci, che «per anni ha fatto la guerra al Matteo sbagliato», aprendo la strada alla vittoria salviniana, per creare (anche in vista delle Europee del 2019) un nuovo soggetto politico. Sul modello della macroniana En Marche, si è detto (e del resto lo stesso presidente francese riconosce in Renzi un precursore della sua innovazione politica), ma anche della spagnola Ciudadanos. In ogni caso, un contenitore di impronta liberal-democratica, europeista e saldamente occidentale, capace di costituire quello che lo stesso ex segretario Pd chiama «un fronte ampio contro lo sfascismo populista».
Solo che su questo progetto si è abbattuta una doccia fredda che lo ha per il momento gelato in culla: i numeri. Diverse settimane fa, mentre il Pd si attorcigliava nello scontro post-voto e l’Assemblea nazionale decideva di non decidere nulla per evitare rotture, Renzi ha fatto testare la sua idea da due istituti di sondaggi, Swg e Emg di Fabrizio Masia. È andata «piuttosto male», come ha detto lo stesso Renzi ai suoi: una delle due analisi collocava il potenziale partito renzian-macroniano al 4%, appena sopra il quorum, l’altra dava qualche punto in più, ma poca roba. Il problema, hanno spiegato gli analisti, è che un eventuale «partito di Renzi», in questa fase, sconta pesantemente la crisi di fiducia che investe l’ex premier sconfitto: nell’ultima rilevazione di Nando Pagnoncelli sui leader, pochi giorni fa, Matteo Renzi si colloca all’ottavo posto, con il 12,3% di voti positivi. Prima di lui c’è Silvio Berlusconi (14,8%) e persino Maurizio Martina (15,2%), mentre Paolo Gentiloni svetta in testa alla classifica Pd con il 34,8%. Il neo-premier Giuseppe Conte, ancora in fase «luna di miele», veleggia al 52%, Matteo Salvini lo segue al 44%.
Il marchio della sconfitta, che grava su Renzi dall’ormai lontano 4 dicembre 2017, quando i No travolsero nel referendum il progetto di innovazione costituzionale su cui aveva investito il proprio patrimonio politico, si ripercuoterebbe su una nuova impresa politica che venisse individuata come renziana. Così, per ora, ogni progetto resta nel cassetto e Renzi è tornato ad occuparsi del Pd. Che per ora è sospeso nel limbo, senza un leader riconosciuto.
L’ipotesi di affidare la leadership a Paolo Gentiloni, l’unica che avrebbe messo d’accordo tutti (dai grandi vecchi Prodi e Veltroni all’aspirante leader della sinistra tradizionale Zingaretti fino allo stesso Renzi) è caduta per il cortese ma fermo diniego opposto dal diretto interessato. E all’Assemblea nazionale del 7 luglio ci si limiterà a confermare Martina alla segreteria, rinviando le scelte ad un congresso da tenersi dopo le Europee del 2019.