La Stampa, 24 giugno 2018
A lezione da Scorsese
Il miracolo si realizza sul palcoscenico del Teatro Comunale gremito di spettatori. Quattro registi del nostro cinema migliore, quello lodato e premiato all’estero, Matteo Garrone, Jonas Carpignano, Alice Rohrwacher, Valeria Golino, tornano alunni timidi e impacciati, a tu per tu con il grande autore, applaudito con entusiasmo da un pubblico appassionato. Ospite d’onore della Cineteca di Bologna per l’inaugurazione dell’annuale appuntamento con il «Cinema ritrovato», Martin Scorsese risponde alle loro domande con la precisione generosa che lo caratterizza, attento a coglierne il senso e forse anche lui divertito da quelle timidezze inattese.
Il primo a rompere il ghiaccio è Matteo Garrone (in sala ci sono anche i protagonisti di Dogman, Marcello Fonte e Edoardo Pesce, accolti da vere ovazioni). Parla di un problema che gli sta a cuore, ovvero la necessità di mantenere viva l’abitudine a vedere i film in sala: «Niente può essere paragonato a questa esperienza unica – lo rassicura Scorsese -, ma bisogna lottare per preservarla, per far capire che è irrinunciabile, dicendo alle famiglie, ai vecchi e ai giovani, che bisogna uscire di casa e andare al cinema pagando il biglietto. È quello che io faccio di continuo, ovunque mi trovi. I diversi modi di fruire dell’arte cinematografica troveranno la via per convivere, così come, già adesso, si vedono, alla stessa maniera, film nuovi e film antichi».
Il potenziale tecnologico
Il cinema, per Martin Scorsese, è un amore viscerale, da difendere a testa alta contro la banalizzazione di tutto: «Dobbiamo far capire alle ultime generazioni che una cosa è l’arte e un’altra i contenuti di ogni tipo che scorrono sugli schermi. I ragazzi sono abituati a vedere di seguito notiziari, pubblicità e pezzi di film, bisogna tornare a insegnare loro l’alfabetismo visivo, affinchè colgano le differenze». Le moderne tecnologie sono una miniera da cui attingere per migliorare la qualità delle creazioni: «Il mondo cambia velocemente, sta a voi sfruttare questo momento, dall’universo della realtà virtuale potrebbe anche venir fuori il nuovo Beethoven». I codici della rappresentazione mutano, ma non è detto che non lascino tracce fondamentali: «Ricordiamoci sempre che le statue greche e le rovine romane erano colorate, ma noi le abbiamo apprezzate anche senza dipinti. È successa la stessa cosa con il monologo dell’”essere o non essere” di “Amleto”. Era nato per essere pronunciato in mezzo al pubblico, in modo veloce e febbrile, noi siamo abituati da sempre ad ascoltarlo in un clima opposto. Se Shakespeare lo vedesse oggi direbbe che è tutto sbagliato, ma nell’arte c’è sempre un valore, che resta».Prima di fare la sua domanda, sul rapporto tra l’autore e la propria creazione, Valeria Golino, microfono in mano, mormora «aiuto», poi si fa coraggio e va avanti: «La cosa che conta più di tutto – dice Scorsese – è affezionarsi a quello che si è fatto. Solo così si può riuscire a stabilire la comunicazione con gli spettatori». Il regista della Ciambra Jonas Carpignano affronta, prima in italiano e poi in inglese, il tema della conservazione delle pellicole, al centro dell’impegno di Scorsese nella «Film Foundation», mentre Alice Rohrwacher si lancia temeraria nel campo del privato («Quali sono i suoi rapporti con l’Italia»), stimolando i racconti più interessanti della serata.
«Più che in italiano, a casa mia si parlava in siciliano, e quella è la lingua che ho sentito di più da piccolo. Soffrivo d’asma e i medici avevano raccomandato ai miei di farmi stare tranquillo, niente corse, niente sport, e nemmeno troppe risate perchè altrimenti diventavo blu e rischiavo il collasso. Così hanno cominciato a portarmi sempre al cinema, dove vedevo un’America a me sconosciuta, un mondo a colori, i western pieni di animali, cavalli e cani, cui nella realtà non potevo avvicinarmi, sempre per via del mio problema di salute».
La luce, nella vita vera, era una presenza rara: «Nella mia stanza ce n’era poca, forse per questo, su set, mi è difficile gestirla. L’unica che ricordo bene era quella drammatica della Cattedrale di St.Patrick a New York, dove ho passato tanto tempo». La svolta cruciale è arrivata più tardi, quando «ho visto per la prima volta i film del neorealismo, Sciuscià, Paisà, Roma citta aperta, Ladri di biciclette, e ho capito che parlavano della nostra cultura, della verità che avevo sotto gli occhi in famiglia. Negli altri film, per trasformarla in intrattenimento, la realtà era come modificata». Nell’arco della sua intera carriera Scorsese confessa di essersi interrogato su queste due maniere di essere cineasta: «Mentre giri pensi a mille cose, agli esempi di altri registi, Fellini, Rosselini, Welles, Ford, ma quello che conta, alla fine, è sempre la tua storia, la tua emozione».