La Stampa, 24 giugno 2018
La nuova missione degli Stati
Una missione innovativa per lo Stato nazionale o leggi aggressive contro le multinazionali: sono le proposte, conflittuali fra loro, che spiccano nel laboratorio degli atenei anglosassoni dove fervono gli studi per arrivare a formulare una risposta convincente alla sfida delle diseguaglianze ovvero alla causa prima della rivolta populista che scuote le democrazie.
A suggerire la strada di una nuova missione per lo Stato nazionale è Swati Dhingra, brillante docente di Economia alla London School of Economics, secondo la quale la risposta all’impoverimento del ceto medio nelle democrazie industriali, frutto della globalizzazione, è nella capacità di adattare la forza lavoro nelle manifatture alle nuove tecnologie e ciò può avvenire attraverso due percorsi paralleli: riqualificare chi ha perso l’occupazione per consentirgli di rientrare sul mercato e preparare le nuove generazioni alle sfide dell’immediato futuro. Dhingra parte dalla considerazione che anche le aziende private hanno tali opportunità ma continuano a non investirvi in maniera significativa, considerando la riqualificazione di chi è disoccupato o la preparazione dei giovani un elemento certo importante ma non al punto da essere strategico. Ed è anche una questione di dimensioni perché le diseguaglianze oggi sono a tal punto diffuse che solamente le risorse pubbliche possono farvi fronte. Si tratta infatti di una ferita che genera evidenti scompensi geoeconomici con aree urbane o macroregioni, dalla Silicon Valley alla City di Londra fino a Monaco di Baviera, che vivono in bolle di benessere crescente mentre altrove nelle medesime nazioni aumentano disagi e povertà, da Detroit a Hull fino a Halle nell’ex Germania Est.Ciò significa che sanare le diseguaglianze è diventata una priorità degli Stati, a cui manca però un piano d’azione così come la convinzione che sia la priorità a cui dedicarsi, ridefinendo attorno a questa nuova agenda la destinazione delle proprie risorse. Insidiato dal populismo che ne contesta la legittimità democratica, lo Stato nazionale in Occidente può dunque andare al contrattacco e tentare di riconquistare la fiducia dei cittadini offrendogli protezione lì dove più ne hanno bisogno: sul lavoro. Puntando a trasformare l’innovazione come una straordinaria occasione per creare nuove professioni, specializzazioni e dunque posti di lavoro. Per chi lo ha perduto come per chi lo cerca. Alle diseguaglianze dunque, suggerisce l’angloindiana Dinghra, si risponde con lo Stato che investe nella formazione alle tecnologie come antidoto più efficace. Gettando le basi per una nuova tipologia di intervento pubblico a favore degli «scartati», capace di coniugarsi alle caratteristiche del nuovo secolo. Opposta invece la ricetta di Glen Posner e Andy Weil, docenti di Economia a Chicago e Yale nonché autori del recente libro «Radical Markets», secondo i quali l’inizio del XXI secolo non è poi tanto diverso da quanto avvenuto alla fine dell’Ottocento con i giganti della produzione che crescono in maniera smisurata chiedendo a dipendenti e cittadini di affrontare emergenze continue. Posner e Weil sostengono quindi la necessità di aggredire con leggi, norme e regolamenti le grandi corporation internazionali – maggiori attori della globalizzazione – per ricavare le risorse necessarie ad una redistribuzione della ricchezza a vantaggio dei meno fortunati.Ciò che colpisce del confronto a distanza fra Dhingra e Posner-Weil è che in entrambi i casi si guarda allo Stato nazionale come l’unico attore capace di fronteggiare la sfida delle diseguaglianze, con ricette aggressive ma di tono opposto: creare nuove professionalità per far crescere il mercato del lavoro oppure obbligare i giganti della globalizzazione a condividere i loro profitti. Ovvero, il bivio fra l’idea di uno Stato visionario o repressivo.È una differenza relativa anche alla lettura delle trasformazioni economiche: chi ritiene che la chiave di svolta sia l’innovazione si pone il problema di come risolvere la carenza di competenze, chi invece guarda con sospetto ai mercati finanziari vuole sfruttare l’occasione per limitarne l’indipendenza. Sono i contorni di un dibattito sul ruolo del «Good State», lo Stato a favore dei cittadini, che al momento nasce su tematiche di richiamo progressista per il semplice fatto che il populismo avanza grazie al sostegno di masse di disagiati e diseredati in cerca di sicurezza. Come la rivoluzione industriale alla fine dell’Ottocento creò i bisogni di protezione del sottoproletariato così la globalizzazione alla fine del Novecento ha generato identico bisogno nei «dimenticati». Ma la differenza è che in questa fase storica i partiti progressisti appaiono in drammatico ritardo nella formulazione di risposte innovative, lasciando il campo aperto agli avversari. Da qui la necessità di gettare lo sguardo dentro atenei e centri di studio, scommettendo sulla creatività dei ricercatori per trovare una ricetta che armonizzi innovazione, lavoro e speranze. Chiunque la troverà avrà l’opportunità di sanare la ferita della globalizzazione, generare nuove opportunità di sviluppo e ricostruire dal di dentro le democrazie rappresentative.