il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2018
«Sono un uomo del ’900 (multitasking)». Lunga intervista a Enrico Mentana
Quando Enrico Mentana parla, spesso non guarda in viso. Non è scortesia. O timidezza. Ma come spiega lui stesso, “sono multitasking”, vuol dire che risponde alle domande, poi con un quarto di occhio controlla il match dei Mondiali di calcio (e commenta), con un altro quarto monitora il computer e il susseguirsi di notizie, quindi legge gli articoli per il telegiornale della sera, scrive i titoli, arrivano i messaggi sul cellulare, poi allo scadere dell’ora tonda c’è il collegamento con Rds per il suo Cento secondi con. “La fortuna è che non conosco lo stress, non sento la fatica e da sempre. Quanto dormo? Boh, poco”. È una macchina da guerra. “Solo macchina”.
Nel libro di Liliana Segre “La memoria rende liberi” ha definito il “Giorno della memoria“una “routine ipocrita”.
Il rischio è quello. Quando ero piccolo a fine ottobre c’era la giornata del risparmio, in qualche modo spinta dalla stessa Cassa di Risparmio, e sistematicamente a scuola ci propinavano il tema sull’argomento; ho sempre pensato: per un giorno fingiamo attenzione, responsabilità, partecipazione, consapevolezza, quindi il perfetto lasciapassare per fottersene il resto dell’anno.
È già così?
In realtà i cicli storici si interrompono con la generazione che li ha vissuti.
(Alla destra della scrivania ha una sorta di baracchino, all’improvviso si accende, c’è la sigla della radio. “Si prepara il testo per l’intervento?” “No, vado a braccio”)
Cosa manca oggi?
L’impianto forte della democrazia, cioè i partiti di massa, l’impegno come punto di confronto all’interno della famiglia politica e dopo con le altre famiglie. I partiti rappresentavano grandi ideologie, speranze, illusioni, tutto questo portava passione, erano scuole di formazione culturale; i grandi intellettuali erano organici, e penso a saggisti, pittori, scrittori, latinisti. Oggi è impensabile. Mi ricordo i comizi nelle piazze, i momenti forti della vita politica…
Lei ci andava a prescindere dall’appartenenza.
Ho avuto la sorte di una vita molto veloce, in buona sostanza a 25 anni ho iniziato come giornalista in televisione.
Magari al liceo.
Ero un giovane anarchico di un gruppo libertario, tra noi c’era persino Michele Serra, frequentavamo lo stesso liceo nel quale, anni dopo, si è iscritto Matteo Salvini (si ferma, la Nigeria ha sfiorato il gol). Ah, c’era anche un altro Salvini, il giudice, anche lui anarchico, protagonista di una storia in stile Dürrenmatt: è stato lui a far confessare il suo ex compagno di lotte giovanili, Mario Ferragni, riguardo all’omicidio dell’agente Custra (Milano, 1977).
Lei alle interrogazioni liceali.
Sono entrato in quarto ginnasio nel 1968, ed eravamo prede di una curiosità devastante: volevamo conoscere tutto e contestare altrettanto; volevamo capire per poi sfidarci in collettivi e assemblee, magari per far colpo sulle ragazze.
Stimolo immancabile.
Funzionava la capacità di parlare in pubblico, di sostenere delle idee. (Segna la Nigeria, scatta la parentesi calcistica. È soddisfatto per l’arrivo di Nainggolan all’Inter: “Lui è proprio forte”)
Torniamo al liceo…
Quella voglia di parlare in pubblico e mostrare le proprie idee è il vero motore per tanti di noi poi diventati giornalisti.
Giornalista più per sapere o per trasmettere?
Cercare di capire per poi raccontare, è una condizione continua e senza ansie.
Niente ansie?
Non ne soffro, vado tranquillo.
Insomma, quanto dorme?
Quattro o cinque ore, massimo sei.
Il riposo estivo-pomeridiano è una bestemmia.
Non esiste. Probabilmente se lavorassi in una miniera dormirei maggiormente, mentre la nostra professione non è stancante; mica siamo impegnati nei campi per ore e ore, o in fabbrica, o in bottega.
Altro che maratone televisive alla Mentana.
Ogni volta dicono: “Incredibile, è stato dieci ore in onda”, quando c’è gente che è rimasta dieci ore a guardare. Secondo me è più facile trasmettere che assistere.
Chi trasmette deve avere tutto sotto controllo, chi assiste può anche distrarsi.
È il mio lavoro.
Sa qual è la curiosità più diffusa in Rete riguardo alle maratone?
Sì, come riesco a non andare in bagno. Però ribadisco: in qualsiasi lavoro se c’è il massimo di attenzione, di adrenalina, di compartecipazione, non senti certi stimoli, o stanchezza, o dolori vari.
Va oltre.
Ci sono attori balbuzienti che davanti a un riflettore vanno diritti.
Chi è il direttore?
Chi dà l’esempio su tutto, chi cerca di stare sempre sintonizzato sulla necessità del prodotto. Chi fa i titoli del telegiornale e va in onda; chi cura il piano ferie e le vertenze sindacali; chi concilia le liti tra giornalisti e dà ogni giorno le linee guida.
Percentuale di fallibilità?
L’errore lo vedi sul lungo periodo, ma quello che conta è saper dire sì o no e cosa fare. È necessario offrire sempre una risposta, l’incertezza è il vero errore.
Si è mai sentito inadeguato?
Mai. Quando si agisce, non ci si sente inadeguati.
Neanche quando è andato a dirigere un telegiornale a 36 anni?
Se uno si sente non adatto a quell’età, vuol dire che non hai un buon rapporto con te stesso. E comunque avevo anche delle doti e non era un’impresa titanica, ma solo bellissima, nella quale ho potuto costruire da zero qualcosa di esaltante.
Le sue doti?
Sono veloce di testa.
Paura di perderla?
Ho 63 anni suonati, e ho presente che tutto questo è stato causato anche da una serie di colpi di fortuna.
Tradotto?
Il punto chiave è quello di prima: quelli della mia età che volevano diventare giornalisti, ci sono riusciti; oggi ci sono giovani bravissimi, ma impossibilitati. Non ci sono spazi. I nuovi non entrano, siamo sempre nello stesso recinto, il nostro mestiere si è chiuso e non interagisce con l’esterno, i grandi giochi li gestiscono solo quelli già posizionati. E il giornalismo è la metafora dell’Italia: persone sedute che non si alzano più.
Nessun ricambio.
So benissimo di suscitare simpatia tra i giovani per le mie maratone, ma questo peggiora la situazione: se il tuo punto di riferimento è un sessantenne, vuol dire che non hai l’esigenza di soppiantarlo, di cacciarlo e rinnovare.
Lei conosce il potere da 40 anni. Com’è cambiato?
Non contano né i soldi né il potere, ma l’affermazione, il realizzarsi.
Sì, ma il potere in Italia.
È sempre stato strano per via della partitocrazia, quindi un equilibrio tra imprenditoria, istituzioni e partiti, dove quest’ultimi decidevano, tanto è vero che a un certo punto il mondo dell’economia e della finanza ha creato un suo partito intorno a Enrico Cuccia.
E oggi?
Il potere è sempre stato una forza residuale, anche quando è arrivato Berlusconi.
Prima della “discesa in campo”, Berlusconi ne capiva e si interessava di politica?
Da sempre aveva ben chiaro un punto: doveva semplificare. E quando ha vinto le elezioni, lo choc per la classe dirigente di allora è stato di perdere i posti di controllo. Anche per questo l’hanno disarcionato.
Insomma, qual è il vero potere forte?
Chiunque arriva al governo non sa come muoversi, non sa come mettere in pratica le promesse elettorali.
Comandano i mandarini.
Esatto. In un grattacielo di 30 piani la figura più importante non è chi abita nell’attico, ma il tecnico dell’ascensore.
“Loro” di Sorrentino le è piaciuto?
Non mi appassiono a quello che tutti devono vedere o leggere, perché argomento di discussione. Non sono salottiero. E la sera vado a casa. (Silenzio. “Rete! Aspettiamo il replay, sembra l’azione di Mazzola a Budapest: partono dalla difesa in contropiede”)
Allora niente “Loro”.
Non ho neanche affrontato la Versione di Barney quando è scoppiato il caso.
Cosa legge?
Al novanta per cento saggi.
Biografie?
Sì, ma non amo quelle romanzate. E leggere è l’antidoto al motore di ricerca, una malattia della quale si ha poca cognizione.
Acquisiamo cognizione.
Non ho la patente, non uso calcolatori, non ho l’agenda, i numeri li so a memoria; detesto tutto ciò che del progresso e della tecnologia si sostituisce alla mente umana. Ciò che priva e diventa una mutilazione.
Quindi?
Il motore di ricerca è la stagnazione del cervello giovanile. Bisogna leggere.
Sui social è molto attivo.
Il giornalista del 2018 non può restare su una torre d’avorio e fregarsene di quello che accade nei bassifondi; deve misurarsi con la nuova agorà del web, dove – purtroppo o per fortuna – il confronto è molto diretto e dove avviene il contrario del celebre aforisma…
Quale?
Uno non deve mai discutere in pubblico con uno scemo: chi ti segue potrebbe non cogliere la differenza, e poi lui ti batte con l’esperienza.
Giusto “sporcarsi”…
Se sul web lasci spazio ai cretini, quelli prendono campo e già ne hanno tanto.
Scrive molto, non frasette.
Perché contesto la logica breve di Twitter, anche se sarei avvantaggiato dalla frasetta-battuta-cazzata.
Ha mantenuto intatti i suoi ideali da ragazzo?
Sono un figlio del Novecento, sono uno che crede nella differenza tra sinistra e destra, anche se la laicità di pensiero e la visione delle cose mi ha fatto comprendere che uno non deve fare il tifo per l’uno o l’altro. Però sono diverse, uno non può essere per l’accoglienza e per il rigore. Mi spiego: Renzi ha distrutto il Pd? No, gli ha allungato la vita.
Ne è certo?
Quel Pd di Bersani sarebbe arrivato allo stesso punto di oggi, ma prima. Il problema è che gli ideali di sinistra si sono scontrati con le nuove realtà; dal punto di vista delle pulsioni la piramide si è rovesciata: il nemico dei giovani non è più il capitale, ma la persona di colore o il rom.
Le hanno mai proposto di diventare massone?
Ci sono due campi che non mi hanno sfiorato: la droga e la massoneria.
Niente droga?
A volte sembro scemo, ma non ho mai visto uno tirare di cocaina, e non mi capacito di come le persone sottovalutino un dato: farsi anche solo uno spinello vuol dire interagire con le organizzazioni criminali.
A 45 anni giocava con la Playstation, oggi?
Allora era un modo per stare con mio figlio 13enne, e poi avevo una lontana tendenza alla ludopatia, quindi ho lasciato perdere. Preferisco il sudoku. (Si riattiva il baracchino, altro collegamento con Rds)
Di quale mistero italiano le piacerebbe conoscere la verità?
Ce ne sono tanti, a partire da Piazza Fontana…
Rapimento Moro.
In questo caso sono più avantologo che dietrologo: quella è stata una questione delle Br, dove poi ognuno ha messo il suo cip. La questione è più sugli Anni di piombo.
Vissuti in prima persona?
Ho visto compagni di liceo entrare nella lotta armata (sono le 19.05, inizia a leggere i pezzi della sera). Allora c’era un’idea della violenza.
I suoi genitori erano preoccupati?
Non ho mai avuto questa percezione, poi a 18 anni sono entrato nei socialisti.
La sua notte prima degli esami?
Sono un cazzone, come ho detto non sento lo stress né l’ansia, e il giorno dell’orale mi sono comportato da cretino.
In che modo?
Ho rischiato la bocciatura.
Cosa aveva combinato?
Il membro esterno, un prete, mi chiede Dei sepolcri e perché “li dedica a Pindemonte e non a Mentana?”.
E lei?
Rispondo: ‘Me l’aveva offerto, ma per questione di sponsorizzazione non ho potuto accettare’.
Non ha resistito alla battuta.
Impossibile.
Per chi tifa ai Mondiali?
Croazia. Modric è l’ultimo grande centrocampista, uno alla Pirlo.
Cosa si aspetta dal domani?
Avere la capacità di invecchiare tranquillamente: sarà difficile uscire da tutto questo, magari mi piacerebbe creare un giornale online solo di giovani.
E poi?
Riuscire ad andare ai giardini e fare l’umarell, il pensionato che sta alla grata mentre gli operai lavorano.
Senza stare zitto.
Se uno smette di parlare, muore.