Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2018
Aloha, una camicia di libertà
La parola al maestro: Paolo Conte, naturalmente. La canzone è Blue Haway, e monsieur ha, come sempre, capito tutto; lo scolpisce in pochi versi, che sono una filosofia. «Cercavo una donna / E ho trovato una commedia / C’era da finire in braccio / Alle chitarre hawaiane / Che hanno cullato / Milioni di persone / Per tanti anni... // Il mio viso si intontiva / Davanti al tuo parlare difficile / C’era da indossare subito / Una camicia hawaiana / E sventolare contento / Davanti a un cielo primitivo // Blue Haway / A dream in a dream / Just Haway / Cream in cream / Haway Haway blue and far away...». Era il 1981, il tempo glorioso di Paris Milonga e c’è tutto: la voglia dell’evasione, la possibilità di vivere un sogno (su un’isola e lontani, con la fantastica assonanza grafica e acustica che le isole Hawaii permettono con la parola inglese away...), facendosi beffe del resto, cullati dal suono irridente delle chitarre hawaiane (avete presente quello strisciato suono metallico, wuuuuiiiing, semplicemente irresistibile), davanti, e il dato geografico è importante, nella canzone e nella vita, a cieli primitivi. L’immaginario, come spesso in Conte, è di importazione; rimasticato in chiave provinciale ma dice del nostro modo di vedere le cose.
L’antecedente è una canzone di Elvis che, 20 anni prima, aveva firmato l’omonimo film e album; di importanza capitale per la cultura americana, e, quindi, di riflesso, per la nostra. E già: perché da quando gli americani, nel secondo dopoguerra arrivano in massa (oddio, in massa, quelli che se lo possono permettere...) nelle isole del Pacifico, appena diventate Stato americano (il 21 agosto 1959; giusto in tempo per far nascere, il 4 luglio 1961, il più cool e progressista dei presidenti degli Stati Uniti d’America, mr. Obama), le icone che le isole donano al mondo sono tre: il surf, ben prima della California, la camicia a fiori, larga, ampia, coloratissima, e la parolina magica «Aloha», che riassume, in un sorriso di apertura e fiducia il tempo presente e futuro, il piacere di stare su questa terra, la voglia di “sventolare” che solo chi è nato nelle isole percepisce in tutta la sua profondità metafisica. Insomma, Elvis e la sua camicia sono un simbolo di libertà conquistata: e già 10 anni prima, nel 1951, «Time» aveva catturato lo spirito dei tempi, immortalando il presidente Truman a Miami con una camicia hawaiana («The evolution of a wardrobe» era il titolo del servizio di copertina!) sorridente e tranquillo: la guerra è finita, si riparte di slancio; il mondo è da conquistare.
Eppure niente è casuale: e ce lo ricorda un gran bel libro di Dale Hope, che ha dedicato la sua vita (venendo da una famiglia di commercianti e produttori di camicie a fiori) al tema. The Aloha Shirt (Patagonia Inc, pagg. 382, migliaia di illustrazioni, $ 50,00) è un repertorio imperdibile di storie, anche in chiave industriale, di immagini, di marchi, di modi d’uso e, ovviamente, di pattern. Ascendenze giapponesi, mischiate a lavoratori filippini, influenze del kimono, abiti da lavoro delle piantagioni, echi del pareo tahitiano: un po’ di tutto questo per un capo da indossare senza formalità, il colletto floscio, la larghezza ben oltre la taglia, la vistosità come messaggio per nulla subliminale. Sebbene ci fossero già degli esperimenti, Hope rintraccia nel 1935 una possibile data di nascita ufficiale, quando il sarto di Honolulu Musa-Shiya Shoten, fece pubblicità su un giornale alla sua «Aloha Shirt», già pronta o da ordinare da 95 cent in su. La miccia è accesa: e l’incendio colorato divamperà. Nel libro di Hope sono censiti etichette, bottoni (di cocco) e motivi: ananas e palmizi, pesci e uccelli, vulcani, canoe, personaggi e fiori di ogni tipo, fino ai rari motivi astratti. L’importante era che le stampe risultassero evidenti, pacchiane quanto basta, sgargianti: era (ed è) una questione di grafica, alla fine, perché l’occasione di impressionare l’occhio con un guazzabuglio di colori che a ogni sguardo più fine rivela un particolare più preciso è un vecchio “trucchetto” di chi con la stampa ha dimestichezza. Da trend commerciale a simbolo estetico e culturale, il passo fu breve e sarebbe inutile elencare il nugolo di star del cinema che le hanno indossate o ne hanno fatte un perfetto costume di scena. Il processo è identico a quello dei miti d’oggi di barthesiana memoria: un oggetto diventa via via popolare e riconoscibile e assurge allo stato di icona, spesso inconsapevole di chi la usa. E perciò, dopo qualche decennio di appannamento, quando la si vedeva come indumento da nostalgici panzoni, forse oggi che la camicia hawaiana torna anche di moda (in questi anni si sono moltiplicati i casi di presenza in sfilate anche di alta moda), possiamo decretarne senza tanti patemi la sua insostibuile funzione culturale: farci indossare il sogno di una vita finalmente diversa, almeno per qualche ora.
E «sventolare contenti», come Conte aveva profetizzato per tutti noi, da autentico, raffinatissimo, liberissimo classico quale è, sempresialodato.