Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2018
«Nostra Signora dei Turchi», 50 anni di delirio concertato
«I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi significa pregare. Si prega così oggi, come sempre»: contemporaneo Carmelo Bene lo è perché inattuale, inattuale come le considerazioni di Nietzsche e, come lui, al di là del Bene e del male. È con spirito zarathustriano che bisogna accostarsi a Nostra Signora dei Turchi, un film «per tutti e per nessuno», partorito prima in forma di romanzo e pièce teatrale, poi in fluviale lungometraggio: undici ora e mezza di girato, ridotte a poco più di due per la Mostra del Cinema di Venezia del 1968, ora riesumate dalla Cineteca Nazionale e presentate al Festival del Nuovo Cinema di Pesaro. Queste schegge video in bianco e nero – controtipi (negativi) della pellicola a colori Ektachrome – sono mute: «Del film non sono neanche un’eco lontana, appaiono fragili frammenti elettrici sospesi, come in attesa che la furia iconoclasta del montaggio, o più precisamente smontaggio, le scateni», spiega il curatore dell’operazione Fulvio Baglivi.
Fu lo stesso Bene a raccontare che il suo «metodo aggiunge per sottrarre», lui che del paradosso era il principe nel foro della cinematografia e del teatro italiani. Sono passati cinquant’anni da quella proiezione/provocazione, ma sembra un’eternità: «Culturalmente non sono italiano, ma arabo», disse lui spocchioso, figlio di un Salento che allora era crogiuolo di culture greco-arabe e ora è la culla delle vacanze blockbuster, del turismo di cassetta, dei vip pizzicati mentre mangiano la pizza e ballano la pizzica, o quel che oggi si spaccia per pizza e per pizzica.
Non aveva timore, l’artista, di affermare che «Nostra Signora dei Turchi è il contrario dell’Italia», augurandosi che il film non uscisse nelle sale nostrane e definendolo un «capolavoro... È la prima volta che si rompa col cinema». Eppure quelli erano anni in cui il Paese faceva la voce grossa, e contava molto sullo scacchiere geopolitico della non-nata Europa e della già-nata Nato: bastian contrario per natura o per vocazione o forse solo per posa, Carmelo era dichiaratamente contrario al «maggio italo-gallo» e persin nemico di «tutti i maggi mondani della Storia». In quell’estate calda del ’68 si rifiutò, pur esordiente, di partecipare al codazzo delle contestazioni che scaldava il Lido: non aderì ad alcun appello, occupazione, boicottaggio, a differenza di più scapigliati colleghi come Pasolini, Bertolucci e la Cavani. Venezia 68 fu inaugurata due giorni dopo il previsto, in seguito a uno sgombero della polizia, in un clima incendiario ma non incendiato; il salentino, intanto, non aveva mai smesso i panni dell’intellettuale reazionario: «Gli studenti rivoluzionari sono diventati dogmatici, hanno preso il posto dei professori».
La protesta di Bene si limitò alla stampa, rifiutandosi di rilasciare interviste ai giornalisti italiani; per la verità, parlò poco e controvoglia anche col francese Jean Narboni, il primo che raccolse le sue riflessioni sul film in concorso. È un «delirio concertato»: così il regista, autore e interprete liquidò la propria opera. «Durante le riprese ho contestato me stesso, contestato tutto, contestato il mondo intero».
Anarrativa e atemporale, Nostra Signora dei Turchi ha come sfondo l’assedio ottomano di Otranto del Quattrocento, ma si avviluppa poi, senza soluzione di continuità, alle liturgie ottocentesche e ai martiri contemporanei, con corredo iconografico di cripte, teschi, sangue, ossa, apparizioni e raffigurazioni: la fotografia era firmata da Mario Masini, il montaggio da Mauro Contini e gli effetti speciali da Renato Marinelli, mentre sul set affiancavano la star Lydia Mancinelli, Salvatore Siniscalchi, Anita Masini, Ornella Ferrari e Vincenzo Musso.
Se sulla carta il protagonista è «il Sud del Sud dei santi» – tra il Carmelo-muezzin e il poco ortodosso Giuseppe da Copertino –, sullo schermo protagonista è solo Bene: primattore, mattatore, direttore. Molti anni prima di essere «apparso alla Madonna» – come da titolo della sua autobiografia del 1983 – Carmelo si annovera tra i «cretini che non hanno vista la Madonna», coloro che «hanno orrore di sé, cercano altrove, nel prossimo, nelle donne, in convenevoli del quotidiano fatti preghiere... Non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio».
Blasfemo Bene sì, ma proprio per questo mai profano, sempre all’interno del recinto del sacro, anche quando rappresenta Santa Margherita nuda nel letto, che fuma e legge una rivista femminile, o quando si autorappresenta mentre scola vitamina B12 per il fegato o si fa una puntura intramuscolo coi lombi ben rivolti verso l’inquadratura.
Per lui il Sacro non c’entra nulla con la Chiesa – «La Vergine e i Vangeli li lascio a Pasolini» –, né la sacra arte ha a che spartire coi maestri: pur sentendosi affine a Borges e Huysmans, a Ejzenštejn e Godard, e pur influenzato da Buñuel e Jarry, Bene ha sempre rivendicato l’inutilità della settima arte: «Questa è la sua forza... La prima cosa da fare è destabilizzare le persone... Non bisogna fare capolavori, bisogna essere capolavori... Bisogna farla finita col cinema d’autore. Fin dall’inizio, bisogna distruggere, negare qualsiasi paternità, sennò si rimpiazza lo stato». Ciononostante, Nostra Signora dei Turchi a Venezia vinse il Premio Speciale della Giuria, presieduta da Guido Piovene: «Un pezzo di storia. Oppure no», ai posteri l’ardua sentenza.