Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2018
Machiavelli mezzo Satana
Uno, nessuno e centomila. Un articolo su di una lettera apocrifa acclusa alla prima edizione inglese in-folio del volume Works of the Famous Nicolas Machiavel (1675), pubblicato dalla studiosa tedesca Gaby Mahlberg sulla «Intellectual History Review» induce a una ennesima riflessione sulla fortuna del nostro Segretario Fiorentino.
Non si trattasse di una leggenda nera, con possibili accuse di alto tradimento, tratti di corda o anche peggio, si potrebbe pensare che le calunnie fossero solo un venticello. Ma nel caso del Principe, s’è trattato d’una tempesta, per non dire un fortunale, che si è in parte placata solamente quando è prevalsa la convinzione che sull’arte del governo Machiavelli avesse lasciato un segno simile a quello di Galileo nel campo dell’astronomia.
Prima di lui i trattati sulla politica erano stati sempre uno speculum di raccomandazioni e buoni precetti in cui dovevano riflettersi le azioni di chi deteneva il potere. Machiavelli insegnò, per usare le parole di Francesco Bacone, a tener conto di ciò che gli uomini fanno e non di ciò che dovrebbero fare, e aprì la via per una nuova scienza, la quale, in quanto tale, si sarebbe fondata sull’osservazione empirica.
Il Principe, pubblicato postumo a Roma nel 1532, ebbe un successo immenso. Ma fu un successo di scandalo. Per avere separato la politica dalla morale, divenne oggetto di obbrobrio. Vere o false che fossero le accuse, mezza Europa si strappò le vesti coprendosi gli occhi: specialmente al Nord dove, si sa, sono tutti un po’ più virtuosi.
In Francia fu attribuita alla sua nefasta influenza la strage di San Bartolomeo (1572), peraltro istigata da Caterina de’ Medici, la quale con Machiavelli non aveva niente a che vedere, ma che italiana come lui era di certo. Innocent Gentillet, un ugonotto avverso a tutti quei cortigiani venuti dalla Toscana che circolavano a Parigi, prese la palla al balzo e scrisse un libro, Contre Machiavel, che è la summa di tutto ciò che si diceva e si sarebbe ripetuto nei secoli contro di lui. Definiva il Principe come un manuale pratico per i tiranni e lo paragonava, quanto a immoralità, al Corano di Maometto.
In Italia era stato messo all’Indice nel 1558 e per tutto il periodo della Controriforma fu il bersaglio preferito nella polemica antimachiavellica condotta dai gesuiti. Ma, tra un insulto e una accusa di ateismo, la controversia si fece confusa. Il cacciatore finì nella rete e a essere accusati di machiavellismo furono spesso gli stessi gesuiti, a partire da Ignazio di Loyola.
Nell’Inghilterra di Elisabetta le cose andarono anche peggio. Una tragedia grottesca e sanguinaria che aveva come protagonista un ebreo di nome Barabba fu presentata sulla scena da un Machiavelli redivivo che recitava il prologo. E in genere il teatro e le compagnie di giro, che erano i media dell’epoca e che si rivolgevano a un pubblico che perlopiù non sapeva leggere, fecero da cassa di risonanza alla leggenda nera. Machiavelli entrò in tutte le salse e il suo nome divenne il comune denominatore per ogni sorta di delitti politici. Nei libri, sulla scena e nelle taverne.
Sulla bocca di chi nemmeno sapeva dove fosse l’Italia, le parole «Machiavellic» e «Machiavell», dopo un paio di boccali di birra tiepida, finivano per confondersi con make evil; o, anche, come ha osservato Alessandra Petrina nel suo Machiavelli in the British Isles (Ashgate) con Mitchell Wylie: figura «simile a quella del Vizio nei drammi medievali inglesi». Ma basterebbe un’occhiata alla storia d’Inghilterra e a qualche dramma di Shakespeare, magari il Riccardo III, per rendersi conto che tutto il mondo è paese; e che trabocchetti, delitti, inganni e violenza non sono una esclusiva del nostro passato. Un paio di cose vanno però precisate. La prima è che ciò che Machiavelli mise per iscritto, gli uomini di potere lo avevano sempre saputo e messo in pratica. E la seconda è che la sua orrenda fama altro non era, specie in Inghilterra, che una scusa patriottica e una valvola di sfogo. Il Principe, Machiavelli, gli ebrei, Barabba, l’Italia, Roma e l’Anticristo sono sempre stati un astratto capro espiatorio – l’Altro – su cui riversare di tutto.
La bufera vera e propria aveva avuto inizio nell’inverno del 1538, quando il cardinal Reginald Pole, un inglese fedele alla Chiesa cattolica, era andato a Firenze da Roma, dove viveva in volontario esilio dopo il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona. Machiavelli era morto da dieci anni, ma Pole – scrive Erica Benner nel suo Esser volpe. Vita di Niccolò Machiavelli (Bompiani) – non vedeva l’ora di poter leggere il libro su cui Thomas Cromwell, il consigliere del re di cui lui sospettava, aveva profuso le proprie lodi durante il loro ultimo incontro. Il Principe lo avrebbe aiutato a capire quello che stava succedendo nel suo Paese, dove lo stesso Cromwell «aveva ordito l’assassinio di preti e di nobili» e aveva sempre trovato pretesti ipocriti per giustificare i propri misfatti.
«Quando cominciai a leggere quel libro» ebbe a scrivere più tardi Pole nella sua Apologia ad Carolum Quintum (1539) «vi riconobbi subito la mano di Satana». Personaggio che, guarda caso, in Inghilterra veniva a quei tempi chiamato con il nomignolo di Old Nick. Un tipaccio che era sempre riuscito a far credere alle menti più illuminate di non esistere nemmeno, e che finì per rovinare la reputazione di un onest’uomo che aveva scritto il Principe nel 1513, in esilio, dopo il ritorno dei Medici a Firenze, e che per occupare il tempo e per raccogliere le idee, aveva messo a frutto le conoscenze acquisite in tanti anni di attività – dal 1498 al 1512 – come segretario della Repubblica fiorentina e come diplomatico.
Dopo l’elezione a pontefice di Giovanni de’ Medici, Machiavelli ebbe l’agio di pensare in grande, guardando oltre i colli della Toscana, e in lui individuò l’uomo giusto per la redenzione di un’Italia che vedeva «spogliata, lacera, corsa» (cap. XXVI). Le cose non andarono come aveva sperato e il libro che ne venne fuori è resistito nei secoli come lettura proibita e quasi scurrile per chi volesse documentarsi sui vizi di cui gli uomini sono capaci.
Il Principe, dice infatti Machiavelli, è come «la golpe» e come «il lione». Astuto e coraggioso, rapido e temerario, e risoluto. Aggredisce e uccide, simula e blandisce, per garantire una vita operosa e tranquilla alla propria città. Spietato quando conviene e alieno da qualsiasi cedimento o passione che non sia l’amore per ciò che lui stesso rappresenta – la res publica, il bene di tutti – il Principe è il severo custode dell’interesse comune, e incarna una furibonda e raggelata volontà di rimanere a galla con la propria gente.
Libro pragmatico e patriottico, è improponibile come manuale per un futuro capo di Stato, ma perfetto per chi voglia tenere a mente – seppur sottobanco – una massima aurea del suo biografo e allievo Giuseppe Prezzolini; e, cioè, che «le nazioni che hanno dimenticato il conquistare, impareranno l’esser conquistate». Altro non v’è nella valle di lacrime in cui vige da sempre la legge del più forte. E per questo gli uomini di buona volontà, a partire dal Foscolo e, ancor prima, da Giuseppe Baretti, hanno letto nel Principe non un’apologia della tirannide ma il disvelamento dei suoi orrori per indurre i sudditi a ribellarsi.
E forse sopra ogni altra cosa è un capolavoro per la qualità della scrittura e uno di quei monumenti, come l’Amleto e il Chisciotte, il Malato immaginario e l’Avaro, Eugenia Grandet e i Fratelli Karamazov, nonché – perché no? – come i Promessi sposi, che raccontano la nostra avventura e sfidano il tempo.