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 2018  giugno 24 Domenica calendario

Un’intervista di quarant’anni fa a Jorge Luis Borges

Il lungo dialogo con Jorge Luis Borges (1899-1985), che qui pubblichiamo in parte, fu realizzato da Liliana Heker nel 1980 e appartiene a un progetto letterario culminato nel 2003 con il libro di interviste “Dialogos sobrie la vida y la muerte”.


Cosa le suggerisce la parola «morte»?
«La parola morte? Mi suggerisce... una grande speranza. La speranza di smettere di essere. Sono sicuro, come mio padre, di morire corpo e anima. A volte, mi sento un po’ sfortunato – capita a tutti noi -; soprattutto a un uomo che è solo, che è cieco, che ha senza dubbio alcuni cari amici, ma non molti, un uomo timido come me; a volte, mi sento triste. O peggio mi consolo pensando: sì, è solo questione di tempo. Morirò e cesserò di esistere, e cosa posso desiderare di più di questo, cosa può esserci di più gradito della morte, che tanto assomiglia al sonno che è forse la cosa più gradita della vita. Vale a dire, diffido dell’immortalità, ma questo non è per me motivo di tristezza quanto di felicità: pensare che cesserò. Anche mio padre era certo della mortalità dell’anima. Mi disse: è possibile che quando sarò malato, per fare un piacere a tua madre – che era cattolica – chiamerò un sacerdote e dirò delle bugie pietose. Ma non credermi. Tu sai che io non credo a queste cose. Proprio perché non credo alla fede cattolica posso dire che ci credo; perché non la prendo sul serio. Sì. Ma in un’altra occasione mio padre mi disse (mio padre era professore (...)
(...) di psicologia): Il mondo è così strano che tutto è possibile; perfino la Santissima Trinità. Come se avesse detto che tutto è possibile; persino l’unicorno, no? Beh, su questo punto, la sto deludendo, di sicuro».
Me? Niente affatto. Al contrario.
«Posso dire un’altra cosa? Nell’Antico Testamento si vede che gli ebrei non credevano nell’immortalità personale; credevano nell’immortalità di Israele ma non nell’immortalità di ciascun individuo; ora, c’è un passaggio nel Libro di Giobbe che sembra sostenere il contrario, ma quello deve essere un tranello ordito dai traduttori oppure un errore dei traduttori. Se Lei legge l’Antico Testamento noterà che in nessun punto si asserisce l’immortalità personale; si asserisce l’immortalità di Israele ma non l’immortalità di ciascun individuo, cosicché lei può professare autenticamente la sua fede ebraica e diffidare dell’immortalità dell’anima».
Io non professo la fede ebraica e diffido dell’immortalità dell’anima, quindi non mi delude neanche un po’, Borges.
«Io penso che il mondo intero sia miscredente. Ritengo sia una sorta di pietosa messa in scena».
La parola «vita», Borges, cosa le suggerisce?
«La parola vita? Racchiude tutto. Credo che Fechner, un filosofo tedesco, pensasse che tutto ha vita. Pertanto tale vita, si è detto, si troverebbe... beh, potremmo dire sarebbe addormentata nelle pietre; poi nelle piante – possiamo supporre che sognino -; anche negli animali. E nell’uomo, che si risveglia più o meno. La vita è in tutto. Credo che recentemente siano stati condotti degli esperimenti sulla sensibilità delle piante. In inglese esiste un’espressione: A green hand, una mano verde, il pollice verde, ossia una persona che ha (è una metafora, no?), dicevo: una persona che ha il tocco magico per le piante. E dicono – questo lo so, lo dice una ragazza di Corrientes che lavora qui da me -, lei dice che bisogna amare le piante perché le piante sanno che uno le ama; e gli animali, naturalmente, lo sanno. Gli animali hanno molta sensibilità. Io ho un gatto qui. Beh, vengono qui persone che amano gli animali. Quando arrivano, il gatto viene di corsa. Mia sorella ha paura dei gatti; quando viene mia sorella, il gatto si nasconde in cucina o nel terrazzo. Gli animali hanno sensibilità, senza dubbio. La vita... io credo che, per quanto sfortunato uno sia – e tutti a volte lo siamo -, si debba essere grati per il fatto di vivere. Chesterton ha detto: A un uomo deve bastare pensare che è un uomo, che è in piedi, che è sotto le stelle. Questa è già una felicità così grande: il fatto di esistere; ma, esistere per sempre? Credo che sarebbe una grande sventura. Ormai sono stanco. Ho vissuto troppo. Ho settantanove anni e da un momento all’altro ne compio ottanta e mi rendo conto di avere ormai oltrepassato il mio limite. Le racconterò un aneddoto di mia madre. Mia madre arrivò a novantanove anni. Quando ne compì novantacinque era inorridita; mi disse (era proprio creola): Accidenti, novantacinque, ho esagerato. Si sentiva in colpa».
Rainer Maria Rilke ha detto: «O Signore, concedi a ciascuno la sua morte». Lei crede che esista una «morte propria» che deve confarsi a ciascun uomo?
«Credo che quell’idea Rilke l’abbia mutuata da Seneca. Seneca dice precisamente: morire la propria morte. Questo significa che lo stile della morte è lo stile della vita. Ora, c’è chi ritiene che Rilke, nell’affermare ciò, pensasse a qualcosa di molto più semplice. Da qualche parte lui dice che una volta la gente nasceva nella propria casa e moriva nella propria casa, e che ora la gente nasce in una clinica e muore in una clinica. Io, per esempio, sono nato nella casa di mia madre, in Tucumán angolo Suipacha, e lei era nata in quella casa. Oggi nessuno nasce nella propria casa, e nemmeno muore nella propria casa. Mia madre è morta nella sua casa e così pure mio padre. È possibile che Rilke si riferisse a questo, semplicemente, però è più suggestiva l’idea di Seneca che la morte debba corrispondere alla vita. Per esempio, ho letto una poesia di Johannes Becher, poeta tedesco poi diventato comunista, sulla morte di Goethe. Lui dice qualcosa di cui non ho trovato conferma in nessuna biografia di Goethe, ma che è molto bello. Dice – suppongo che lo abbia inventato, perché non viene menzionato da nessun altro biografo, e io ho letto svariate biografie di Goethe -, dice che lui era in punto di morte e scriveva, scriveva nell’aria. Dice che scriveva, così, e poi cancellava una riga e ne aggiungeva un’altra... Ora, questa sarebbe esattamente la morte di uno scrittore. La poesia si conclude così: So starb ehr Scheibed, e così morì scrivendo. Guardi, io credo che sia un’invenzione di Becher, ma che importa che sia un’invenzione, no?».
Lei ha citato il caso di una morte propria. Conosce casi di morti paradossali, morti il cui stile sia completamente opposto allo stile della vita?
«Io ho visto morire cinque persone nella mia vita. Ho visto morire le mie due nonne, ho visto morire mio padre, ho visto morire la figlia naturale di mio nonno, e ho visto uccidere un uomo al confine con il Brasile, con due colpi d’arma da fuoco. Sì, io direi che esistono morti paradossali. Ma ricordo anche morti proprie. Questo caso molto particolare capitò a due fratelli; uno era Pedro Henríquez Ureña. Pedro Henríquez Ureña era titolare di una cattedra alla Universidad de La Plata e doveva prendere il treno a Constitución. Il treno stava partendo e lui si mise a correre. Prese il treno, si sedette, mise i suoi libri nella rete. Con lui c’era... non ricordo più il nome dell’altro, un dottore. L’altro continuò a chiacchierare. Henríquez Ureña non gli rispose: era morto di un attacco di cuore. Era morto mentre andava a fare lezione, per tutta la vita ha fatto il professore. Ora, suo fratello, Max Henríquez Ureña, autore di una Historia del Modernismo, trovò una morte molto simile. Era titolare di una cattedra alla Universidad de Las Piedras, a Porto Rico. Era arrivato tardi e si affrettò, e anche lui morì di un attacco di cuore. I due fratelli morirono adempiendo al loro destino pedagogico. Sono belle morti. Ora, mio nonno Borges, per motivi politici – non è il caso di entrare nel merito – aveva deciso di morire. Pertanto, dopo la battaglia di Isla Verde, quando Mitre ormai aveva capitolato, lui disse di no, che pensava si potesse ancora tentare un ultimo assalto, e lo seguirono circa quindici o venti gauchos. Si mise un poncho bianco, montò su un cavallo arabo... no, arabo no, storno, avanzò fino alle trincee nemiche, non al galoppo ma al trotto e con le braccia incrociate, offrendosi come bersaglio. Fu colpito da due proiettili e morì il giorno seguente in un ospedale da campo. Fu una morte propria. Aveva fatto il soldato tutta la vita. Iniziò la sua carriera militare come difensore della piazza assediata di Montevideo, a quindici anni, e a diciassette partecipò alla battaglia di Caseros. Fece tutta la campagna del Paraguay, la campagna del Desierto, la campagna contro i montoneros di López Jordán, poi militò in quella rivoluzione, lì furono sconfitti e si fece uccidere. Cosicché quella verrebbe a essere la sua morte propria, la morte di un soldato».
Quale sarebbe per lei la sua morte propria?
«Beh, ciò che vorrei io sarebbe morire in modo repentino. Perché ho assistito a lunghe agonie: l’agonia di mia madre, l’agonia di mio padre, anche l’agonia di mia nonna, tutti anelavano la morte. Posso raccontarle un aneddoto sulla mia nonna inglese. Stava morendo e ci chiamò al suo capezzale – era tre o quattro giorni prima della sua morte – e ci disse: Quello che sta succedendo qui non ha niente di speciale; sono una donna molto vecchia che piano piano sta morendo; non c’è nessun motivo per cui voi tutti vi agitiate. I’m only an old woman; I’m dying very slowly; nothing interesting in all that. In questo, niente di interessante. Dopo tutto, che donna coraggiosa; riusciva a vedere la sua morte come se fosse quella di un’altra persona. In generale, tutte le persone che stanno morendo tendono a teatralizzare la propria morte. Al contrario, lei disse: No, sono una donna molto vecchia che sta morendo; non c’è niente di interessante in questo. Era una donna molto coraggiosa; tanto coraggiosa quanto suo marito quando si fece uccidere a Isla Verde. Lì c’è il loro ritratto. Quando mi trovavo a Junín mi fecero vedere una via che porta il suo nome; e l’albero che lui aveva piantato. Lo piantò nel ’71. Nel 1871».
(traduzione italiana di Marianna Marchi e Mercedes Ariza)