Corriere della Sera, 24 giugno 2018
«Mi manda papà». Filippo Tortu si racconta
Riemerso dall’inedita profondità da palombaro in cui ha appena immerso l’atletica leggera, quei novecentonovantanove centesimi di secondo sui 100 metri piani che nessun bipede italiano aveva mai toccato dal big bang a oggi, Wonder Boy mantiene nel timbro di voce un disincanto che gli auguriamo di non perdere mai. «Se ho dormito? Eccome! Toccato il letto, sono crollato». Il record. L’antidoping fino a mezzanotte. La cena a Madrid con il clan, finita alle tre del mattino. L’insostenibile leggerezza di Filippo Tortu, vent’anni da otto giorni e già un futuro da figlio del vento (maestrale, quello che soffia forte in Sardegna, terra di papà Salvino), al cospetto della storia che gli si è accoccolata ai piedi, facendo le fusa.
Complimenti, Piè Veloce: ha scalzato dalle prime pagine di tutti i quotidiani italiani il Mondiale di calcio.
«Davvero? Non ho letto nulla... Anche perché, purtroppo, noi cosa abbiamo da dire su questo Mondiale in Russia? Ho sofferto moltissimo l’eliminazione degli azzurri con la Svezia, da tifoso e da italiano. Lo sto seguendo poco, giusto il match d’esordio dell’Argentina. Povero Leo Messi: come diceva De Gregori, non si giudica un calciatore da un calcio di rigore. Ho visto giudizi un po’ affrettati...».
Le dispiace se parliamo di atletica?
«No, anzi!».
Come si riscrivono quasi 39 anni di sport in una notte senza perdere la testa?
«Mah, è che io ai 9”99 di venerdì sera a Madrid non ci sto proprio pensando. Nella mia mente c’è solo l’obiettivo stagionale: l’Europeo di Berlino, ad agosto. Oppure, forse, è che non voglio realizzare quello che ho combinato».
Però, alla vigilia, non si era tirato indietro: scendo sotto i 10”, aveva annunciato.
«Mai detto! L’avevate scritto voi. Io me lo sono fatto sfuggire una volta sola, tra amici, senza giornalisti nei paraggi. Anche perché non è giusto parlare prima di fare le cose. Nell’atletica ha diritto di parola solo il cronometro».
Se lo sentiva nelle gambe, quel tempo, perlomeno.
«Ci speravo, sapevo di essere vicino al muro dei dieci secondi. I 100 metri di Savona e del Golden Gala mi facevano pensare di poterci riuscire. Ma poi non sono mai soddisfatto di me e le gare dipendono da mille fattori, oltre che da come corri: la pista, il vento, gli avversari. Mica facile».
Tutt’altro. Sfondato il muro, adesso, non c’è rischio di appagamento?
«Guai! Ho vent’anni: se mi accontento ora, alla mia età, è finita!».
Oppure, al contrario, adesso che fila che è un piacere non teme di strafare?
«E lì entra in campo l’arma segreta: il Mister!».
Papà-coach Salvino Tortu. Bellissima la dedica al suo lavoro.
«Senza papà non sarei qui. Il risultato di Madrid, più che per me, è la ricompensa del suo impegno. È stato criticato per come mi allena, ha sfidato tutti a testa alta. Molti dell’ambiente pensavano che nello sprint potesse funzionare solo il metodo degli Anni 80, invece no. Non esiste una sola verità, ne esistono tante: i risultati gli stanno dando ragione».
Dopo il nuovo record italiano, il primo abbraccio è stato per Giacomo: perché?
«Perché è il mio fratellone! Quest’anno si sta dedicando moltissimo a me: mi segue in trasferta, si sacrifica, si allena in funzione dei miei allenamenti. Glielo dovevo».
Tra nonna Titta e nonna Vittoria chi era la più emozionata?
«Bella domanda. Se rispondo una, l’altra mi fucila. Con le nonne bisogna essere diplomatici: tutte e due!».
Cosa la rende più orgoglioso del 9”99 di Madrid?
«Il fatto che a scendere sotto i 10” sia stato un atleta italiano. Sono molto patriottico: aver portato questo tempo in patria mi fa gonfiare il petto».
999 potrebbe diventare un nuovo tatuaggio?
«Non se ne parla! C’era in ballo la scommessa con un amico: se a Madrid avessi fatto 9”95, il tempo se lo sarebbe tatuato lui, non io».
Quanti messaggi ha ricevuto?
«Mi esplode il cellulare! La Juventus, i pallavolisti azzurri Zaytsev e Lanza, Innerhofer, Arianna Fontana, il giovane astista svedese Duplantis, i calciatori Christian Puggioni e Massimo Gobbi... Prometto di rispondere a tutti però datemi due o tre giorni».
Tortu, Jacobs, Vallortigara, Larissa Iapichino. Per la giovane atletica azzurra è un rinascimento.
«Non sono stupito: fino all’anno scorso viaggiavo con la Nazionale juniores e sapevo quanti piccoli talenti c’erano in giro. Ormai siamo un movimento. L’abbiamo dimostrato agli Europei junior 2017, a Berlino tra i grandi il prossimo agosto speriamo di spaccare».
Siamo arrivati fin qui senza parlare del monumento Pietro Mennea, Filippo.
«Grazie: non mi capita spesso».
Adesso che il mito è battuto nei 100 metri, inizierà il tormentone per i 200.
«Ah lì non si pone il problema: il 19”72 di Mennea è talmente lontano...».
Però.
«Però Pietro resta il più grande atleta italiano di tutti i tempi, senza discussioni. Un po’ mi dispiace che non si parli altrettanto di Livio Berruti, una figura alla quale mi sento più legato, una bellissima persona. Anche Livio merita il suo spazio nella leggenda».
Gira e rigira sempre di paragoni si tratta.
«Sono cose che fanno piacere però non mi sono dedicato all’atletica per ottenere i record o per reggere il confronto con i grandi del passato. Non sono questi gli obiettivi sportivi che mi sono prefisso all’inizio con papà».
Perché correre veloce, allora?
«Corro per la mia gioia e per la gioia delle persone che mi vogliono bene. Corro con lo spirito di Berruti: divertirmi. E, se posso, vincere».