Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  giugno 24 Domenica calendario

Addio a Chichita, vedova di Calvino e custode dell’opera

Carlo Fruttero la ritrasse mentre fumava Gauloises senza filtro, imperturbabile, sul cotto della piscina nella villa a Castiglione della Pescaia. Sigarette che Chichita, vedova di Italo Calvino morta ieri a Roma, ha fumato fino all’ultimo nella sua casa in Campo Marzio, vicino a Montecitorio, dove riceveva amici e studenti, dove continuava a leggere e a scrivere al computer mescolando italiano, inglese, francese, spagnolo. 
Ester Judith Singer (questo il vero nome, Chichita era un vezzeggiativo impostole da una tata messicana) era nata a Buenos Aires nel 1925. «Piccola, lentigginosa, rossa di capelli e con occhi di rara luminosità», sempre con qualche squisito gioiello vittoriano al collo, ai polsi o alle dita (è ancora la descrizione di Fruttero, vicino di casa maremmano, nel suo Mutandine di Chiffon, pubblicato da Mondadori nel 2010), era arrivata dall’Argentina a Parigi a metà degli anni Cinquanta, sul transatlantico Giulio Cesare dopo un matrimonio da cui era nato un figlio, Marcello Weill. Aveva lavorato per l’Unesco, nel 1962 aveva conosciuto Calvino, che in Francia aveva appena pubblicato la traduzione del Cavaliere inesistente, portato nella sua casa parigina da amici argentini. Nel 1964, a l’Avana, il matrimonio con lo scrittore da cui, un anno dopo, era nata la figlia Giovanna. Con la famiglia aveva vissuto a Roma, poi a Parigi, poi di nuovo a Roma, dove erano tornati negli anni Ottanta nella casa, attigua a quella di Natalia Ginzburg, in cui Chichita ha continuato a vivere. 
Ebrea, poliglotta, amica di mezzo mondo, tra cui scrittori come Gore Vidal e Salman Rushdie, ma anche l’attore Richard Gere che avrebbe voluto portare sullo schermo Il barone rampante, Chichita era una donna di grande intelligenza e di spirito, con un umorismo talvolta caustico, dai gusti raffinati («così è Chichita: esige sempre il meglio assoluto, dal ferro da stiro al cespuglio ornamentale, dalla sedia a sdraio al biscotto Fortnum & Mason», ancora l’amico Fruttero). Mentre Calvino era taciturno e riservato, Chichita era l’opposto: grande raccontatrice di storie, maestra di conversazione, capace di passare da un argomento all’altro, di digressione in digressione. È stata la custode dalla mano ferrea dell’opera del marito, di cui ha continuato a governare i diritti, a gestire traduzioni, pubblicazioni, richieste di adattamenti, ma anche copertine e risvolti, insomma tutti i dettagli del lavoro editoriale. Aveva cercato di attenersi il più possibile a quelle che sarebbero state le volontà di Calvino, interpretandole in maniera «protezionistica» e battagliando con editori, agenti, studiosi (per esempio si è opposta strenuamente alla pubblicazione delle lettere d’amore, datate anni Cinquanta, tra Calvino e Elsa de’ Giorgi). Fu lei a gestire nel 1989, con l’agente Andrew Wylie, la cessione dei diritti mondiali degli editi e degli inediti del marito. Bandiera dell’Einaudi, Calvino era già passato nel 1983 a Garzanti, che si era assicurata la produzione successiva a Palomar.Wylie li diede a Mondadori.