Corriere della Sera, 24 giugno 2018
E sul fisco tutti amici come prima
In attesa di vivere una giornata senza dichiarazioni a effetto e proclami estemporanei, proviamo a riflettere sulla promessa fiscale di questo governo. Non tanto sulla sempre più incerta flat tax, quanto sulla cosiddetta pace fiscale. Ovvero il condono tombale per le cartelle esattoriali inferiori ai centomila euro. Nella sua bulimica narrazione quotidiana, il leader di fatto del governo legastellato Matteo Salvini promette un salutare, a suo giudizio, colpo di spugna per «liberare milioni di italiani incolpevoli ostaggi e farli tornare a lavorare, sorridere e pagare le tasse». In sintesi: versate una frazione del tributo, scordatevi sanzioni e interessi (quelli scontati dalle due rottamazioni in corso) e «amici come prima». Nulla di nuovo sotto il sole della Penisola, si potrebbe dire. Si ripete un copione già ampiamente recitato nella Prima e nella Seconda Repubblica. Sotto varie forme di raffinata fantasia. Il tutto per non chiamare il condono con il suo vero nome: Concordato di massa, scudo fiscale, voluntary disclosure e via di seguito.
Sulle questioni tributarie si esercita il massimo dell’ipocrisia nazionale. Non c’è scampo. Ma in questo caso si registrerebbe uno scatto in più. Un gradino disceso lungo la scala invisibile che porta alla rottura del rapporto fra cittadino e Stato, fra individuo e comunità. La dichiarazione di Salvini suona come un’assoluzione generale, un condono morale per tutti i ritardatari delle tasse.
Vittime di un sistema spietato e disumano che li ha portati sull’orlo del fallimento. Oggi finalmente liberati dal giogo crudele di uno Stato oppressivo. Non stentiamo a credere che non siano pochi i contribuenti nell’impossibilità reale di far fronte ai propri obblighi, in particolare quelli che non sono stati pagati, o pagati in forte ritardo, dallo stesso Stato. Siamo convinti da anni che la tassazione sul lavoro sia eccessiva e ingiusta; il groviglio degli adempimenti infernale. L’effetto della doppia recessione è stato devastante per tanti contribuenti. La necessità di affrontare ed eliminare le scorie, in qualche caso le macerie della crisi, improrogabile. Una stagione di comprensione, e persino di indulgenza, nei confronti di molti contribuenti, benvenuta. Ma che tutti, proprio tutti, siano degli angioletti innocenti e che l’evasione riguardi soltanto i grandi patrimoni, le multinazionali e quel coacervo indistinto di poteri forti, è una interpretazione un po’ esagerata. Chi può muovere con facilità i capitali e spostare residenze paga molto poco. Uno scandalo. Ma se è davvero così, perché il governo non pensa a una patrimoniale? Sarebbe, tanto per essere chiari, un errore, ma certamente in linea con il sentimento dell’esecutivo, specie la parte grillina.
Il caso ha voluto che nello stesso giorno in cui Salvini prometteva la pace fiscale al grido di «amici come prima», il ministro dell’Economia si esprimesse con argomenti e toni del tutto diversi. «I recenti dati Istat – spiegava Giovanni Tria ospite di una cerimonia della Guardia di Finanza – testimoniano che l’Italia è in ripresa, ma la pressione fiscale resta elevata ed è pari al 42,5 per cento rispetto al Pil (il Prodotto interno lordo n.d.r) nel 2017 mentre l’evasione fiscale e contributiva risultava pari a 110 miliardi nel 2015». Il ministro si riferiva al cosiddetto tax gap, ovvero la differenza tra imposte e contributi teorici e quelli effettivamente versati. Secondo il rapporto della commissione Giovannini, l’Iva è l’imposta più evasa. Sono 35 miliardi che sfuggono ogni anno all’Erario. Con un effetto trascinamento su altre imposte. L’evasione annuale su Irap, Ires e Irpef per lavoro autonomo e impresa è stimata in 48,8 miliardi. La propensione a evadere è in media del 23,5 per cento. Ma se si escludono i lavoratori dipendenti, per i quali c’è la trattenuta alla fonte, si arriva alla stima di trentacinque euro evasi ogni cento dovuti. Per le sole imprese che pagano l’Ires l’evasione è pari a 9 miliardi (25,6 per cento). Se teniamo però conto dell’articolazione del tessuto economico italiano, ovvero piccole aziende, artigiani, commercianti che pagano l’Irpef sul reddito d’impresa o sul reddito da lavoro autonomo, arriviamo a un’evasione presunta del 68,5 per cento. Con le cifre può bastare.
È dunque assai difficile pensare che non vi siano tra i responsabili di questo mancato gettito – con il quale si farebbe comodamente sia il reddito di cittadinanza sia la flat tax – anche molti degli «amici come prima, incolpevoli ostaggi» della tenaglia fiscale. L’amara realtà è che evadere paga. E si è pure ringraziati. Non solo condonati, ma innalzati ad esempio. Fine. Ora non resta che rivolgere un pensiero riconoscente a tutti coloro, sconosciuti eroi civili – e per fortuna non sono pochi – che continuano a pagare regolarmente tasse e imposte, a rispettare le scadenze, ossessionati dal dubbio di non avere fatto fino in fondo il proprio dovere. Ligi alle regole anche quando ritengono di essere ingiustamente tartassati. Scrupolosi persino nel momento in cui si sentono vittime di norme farraginose e incomprensibili. Quegli italiani disciplinati che pagano le multe per le infrazioni al codice della strada. Multe che verranno gettate nel cestino del condono fiscale. Connazionali convinti che pagare le tasse sia l’altra faccia della medaglia di una cittadinanza responsabile. Il modo di condividere le spese pubbliche, che vanno dalla sanità alla sicurezza. Interpreti autentici dell’articolo 2 della Costituzione nel quale è scritto che la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Quello che forse non sopporteranno è di fare la figura dei fessi in un Paese di furbi.