La Lettura, 24 giugno 2018
Jacko, l’artista che ignorava di esserlo
Jacko. Chi è stato davvero Jacko? Una straordinaria icona, è la risposta del critico Nicholas Cullinan, curatore di Michael Jackson: On the Wall, la mostra che verrà inaugurata alla National Portrait Gallery di Londra giovedì 28 giugno (fino al 21 ottobre). In occasione dei sessant’anni della nascita della popstar, Cullinan ha radunato nelle sale della pinacoteca londinese gli omaggi di quaranta artisti e fotografi di diverse culture, provenienze e sensibilità. Una plurale e inattesa galleria di ritratti. Che esibiscono soprattutto il volto patinato di Michael Jackson. Solo Marilyn Monroe aveva suscitato un analogo interesse negli artisti (da Warhol a Rotella).
Jacko, dunque. Andy Warhol lo fotografa sulle copertine di «Interview» (1982) e di «Time» (1984), per celebrare il successo mondiale di Thriller. Jeff Koons lo trasforma in una statua dorata in stile neoclassico, con in braccio una scimmia. David LaChapelle lo sublima, assimilandolo a un angelo. Paul McCarthy ne propone una trasfigurazione sarcastica, oscillando tra rimandi alla statuaria di Oldenburg e rinvii fumettistici. Sulle orme di Rubens, Kehinde Wiley lo identifica con Filippo II di Spagna: eccolo a cavallo mentre viene incoronato. E ancora: Catherine Opie, nella serie 700 Nimes Road, cataloga gli effetti personali – fotografie, giacche, regali – conservati nella casa di Liz Taylor, molti dei quali legati proprio al cantante. Infine, Isa Genzken, ispirandosi agli studi leonardeschi sul volo, rielabora uno scatto di Annie Leibovitz in cui Jacko danza sulle punte nella posizione freeze e lo accosta a una riproduzione di una pala d’altare rinascimentale e a un dettaglio del David di Michelangelo: nasce così un collage in cui il divo sembra sollevarsi dal suolo.
Questi episodi pittorici, plastici e fotografici sono come i capitoli di un film coloratissimo e talvolta kitsch, il cui protagonista, in un’epoca spesso incapace di generare miti, è riuscito a costruire se stesso come creatura «sovrasensoriale», in grado di sedurre, ipnotizzare, attirare sguardi estatici, condannandoci alla «fascinazione rituale del vuoto» (Baudrillard). Divinità sfarzosa e vuota, lussuosa e fragile. Celebrity planetaria, che ha vissuto rinchiusa a Neverland, rifugio dorato, fortezza, prigione. Jackson: simulacro infantile e sfarzoso, vivace e maledetto. Come una stella che compare e scompare rapidamente: non illumina ma irradia una luce fredda e intermittente.
Ma questo dandy neobarocco è stato solo una potente e contraddittoria icona postmoderna, come suggerisce la mostra di Londra? No. Egli è stato, in maniera forse inconsapevole, un originale artista visivo, che ha studiato la storia dell’arte e ha «acquisito» soluzioni e artifici propri delle neoavanguardie. In tal senso, rivelatore quel che ha raccontato Wiley: «Michael era un grande conoscitore d’arte. In lunghe conversazioni, abbiamo parlato di Rubens e dei cambiamenti della sua pennellata. I suoi riferimenti erano sorprendentemente colti e raffinati».
Questo giudizio ci aiuta a cogliere il lato più segreto della personalità di Jacko. Che riprende da tanti quadri neoclassici la passione per le uniformi. E cita il vero padre della Pop Art, Walt Disney, indossando guanti bianchi come Mickey Mouse. Jackson, inoltre, concepisce i suoi concerti come performance e come tableau vivant: sequenze di immagini inorganiche, eppure vive (non troppo diverse da alcune installazioni di Vanessa Beecroft). Si ricordi lo show tenuto nell’ottobre del 1992 nello Stadio Nazionale di Bucarest, che è stato analizzato dallo storico dell’arte Horst Bredekamp in Immagini che ci guardano (Raffaello Cortina). All’inizio, l’autore di Bad viene scaraventato sul palco; poi, magicamente, si immobilizza. Una lunga sospensione. Il corpo assume una posa statuaria, scevro «persino dell’atto respiratorio». In quel momento Jackson oltrepassa «il confine che separa un’opera d’arte figurativa da un essere vivente, per trarre una presenza magnetica». Per incanto, quella staticità si rompe. E subentra un nuovo movimento. Quasi al rallentatore, il cantante toglie gli occhiali per iniziare la sua danza inconfondibile: il moonwalk. Un po’ uomo, un po’ androide, sembra procedere andando indietro, mentre si tocca i genitali, come tanti automi erotici della storia del cinema (il Casanova di Fellini). Siamo, secondo Bredekamp, dinanzi a una «summa (...) dell’atto iconico schematico».
Ma, forse, le assonanze più profonde sono con le esperienze del Post-Human: una tendenza diffusasi negli anni Novanta in Europa, animata da figure «estreme» come Orlan, Stelarc, McCarthy e Stebark. La popstar sembra appropriarsi delle azioni «disgustose» compiute dai protagonisti del Post-Human, che situa in un orizzonte iper-pop e glamour. In problematica sintonia con quegli scandalosi artisti ma anche con scrittori come Burroughs e Ballard e con cineasti come Cronenberg, egli aderisce al fenomeno delle identità mutanti e delle ibridazioni tecnologiche. Per mettere in scena il declino di una corporeità organica, fondata sulla differenza tra i sessi. E sancire il trionfo di quello che Walter Benjamin definiva il «sex appeal dell’inorganico»: una sessualità neutra, priva di rispetto nei confronti della bellezza e dei generi.
In tale prospettiva bisogna leggere le intenzioni poetiche sottese ad alcuni gesti di questa sorta di reincarnazione di Peter Pan. Che, sorretto da ansie e da inquietudini, insofferente nei confronti della natura, sente la presenza dell’altro, il suo odore e il suo sguardo, come una minaccia sempre incombente. Sceglie, perciò, di trattare il proprio corpo come linguaggio, come mezzo di comunicazione, come materia flessibile: da violentare, da metamorfosare, da rendere irriconoscibile. Sottoponendosi a continui interventi chirurgici, si ricostruisce minuziosamente. Per ragioni quasi «artistiche», si rifà la faccia, schiarisce la pelle, stira i capelli, fino a diventare un androgino frankensteiniano. Transessuale. Travestito. Come ha scritto Jean Baudrillard, mutante artificiale e solitario, interprete «di una nuova estetica dopo tutte le estetiche», densa di assonanze con la filosofia di Warhol. «Embrione di tutte le forme sognate di mutazione che ci libererebbero dalla razza e dal sesso». La sua utopia: diventare bambino innocente e puro. Angelo senza sesso.
Si osservino le ultime foto di Jacko, cui Bernard-Henri Levy ha dedicato un illuminante articolo («Corriere della Sera», 30 giugno 2009). Fisico prosciugato come quello delle silhouette di Giacometti. Pelle sempre più bianca. Volto ridotto, inespressivo. Tratti assottigliati. Occhi come buchi nella fronte. Naso quasi inesistente. Labbra mangiate dall’interno. È «l’ultima stazione di un lungo, terribile calvario». Che conduce l’uomo verso la trans-umanità, verso la post-umanità. O l’auto-cancellazione. Svuotata di ogni tragicità, forse la morte è stata l’ultima performance di Jacko. Baudrillard: «La morte delle star è la sanzione della loro idolatria rituale. È necessario che muoiano, è necessario che siano (...) perfette e superficiali, anche nel maquillage».