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 2018  giugno 24 Domenica calendario

Barnum, l’inventore dello showbiz

«Mi era ormai chiaro che non avevo ancora raggiunto la posizione tanto agognata in questo mondo affaccendato. Avevo dato prova di talento nell’arte di far soldi, come nello scialacquarli; ma il mestiere a cui ero predestinato – possedendone, io credo, l’attitudine – tardava a manifestarsi; o meglio, non avevo scoperto che avrei soddisfatto quell’insaziabile bisogno della natura umana, l’amore per il divertimento; che avrei destato sensazione in due continenti; e che la fama e la fortuna mi aspettavano dietro l’angolo, e sarebbero arrivate non appena fossi apparso davanti al pubblico nelle vesti di uomo di spettacolo. Non avevo previsto nulla di tutto ciò. Imboccai questa strada per caso, non perché lo volessi, e posso dire che il mio successo è stato ben maggiore di quello incontrato da qualsiasi mio predecessore su questo continente». In questo brano, tratto dall’autobiografia di P. T. Barnum, Battaglie e trionfi. Quarant’anni di ricordi (Sellerio), sono racchiuse le molte fisionomie di quest’uomo straordinario, l’inventore dello «spettacolo più grande del mondo». C’è il pioniere dell’industria del divertimento, c’è il self-made man, l’uomo che si è fatto da solo conoscendo persino la prigione, c’è il megalomane, il vanaglorioso, l’avventuriero con un manto di proclami tromboneschi e di sfacciate mistificazioni, c’è l’impresario che sa usare tutti i mezzi per apparire e trasformare il suo nome in un marchio, in un brand, c’è l’imbonitore che tramuta le mostruosità in show, c’è lui, l’eroe folkloristico dell’America della conquista del West. Phineas Taylor Barnum si vantava di essere il solo ad aver ricevuto una lettera il cui indirizzo era ridotto all’essenziale: Mr Barnum, America.
Lo scorso anno, dopo 146 anni di «onorato» servizio, ha chiuso i battenti il circo Barnum, the Greatest Show on Earth (da noi Barnum si è trasformato in vocabolo deonomastico a indicare anche confusione, ciarlataneria), un’istituzione della «vecchia America» che raccontava di animali esotici e bestie feroci, di elefanti bianchi, di «fenomeni da baraccone» (freaks, gemelli siamesi, stranezze della natura, nani, giganti), di noccioline e di zucchero filato. E sempre lo scorso anno è uscito il film The Greatest Showman, un biopic musicale, diretto da Michael Gracey e interpretato da Hugh Jackman nelle vesti del grande impresario.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, Barnum aveva allestito uno spettacolo itinerante con tanti animali e, soprattutto, con tante «mostruosità». Negli anni, aveva dato loro pure un nome: l’Usignolo svedese, la Ragazza circassa, la Donna barbuta, il Ragazzo dal viso di cane... Poi si era unito al suo rivale James Anthony Bailey, creando una enorme struttura mobile che si spostava lungo le ferrovie americane.
C’è una frase attribuita a Barnum (dopo aver letto la sua autobiografia, anche se non l’ha mai detta è come se l’avesse detta) che ci deve far molto riflettere: «Quante persone ci sono in questa strada, un centinaio? Quante sono le persone intelligenti, sette, otto? Bene, io lavoro per le altre novantadue». Senza inutili moralismi, questa frase sancisce la nascita dell’industria dello spettacolo e, più in generale, dell’industria culturale. In questa frase, letta laicamente, c’è l’origine della pop culture. Il «principe dei farabutti», il «peggior ciarlatano in circolazione» vedeva più lontano delle future analisi di Horkheimer-Adorno, di Morin, di Chomsky e di tanti altri studiosi delle culture di massa: «Questo è un mondo intriso di commercio, e uomini, donne e bambini, non potendo vivere di sole occupazioni serie, hanno bisogno di qualcosa che assecondi il loro umore e i loro momenti più gai e leggeri, e chi appaga tale bisogno adempie a una funzione sanzionata dall’Autore della nostra natura. Se costui assolve la sua missione degnamente, saprà di non aver vissuto invano». Vede più lontano perché, da subito, rovescia la prospettiva che sta all’origine del patto. La critica classica all’industria culturale si fonda su due presupposti: l’incapacità dei prodotti di andare oltre la superficie della realtà sociale (aggravata in seguito dai processi di standardizzazione e di ripetizione) e la conseguente perdita del valore critico da parte del fruitore: è la cosiddetta distrazione di massa. Barnum «conosce i suoi polli», inventa lo show della distrazione; per lui, anche la «realtà sociale» può essere distrazione. Perché la radice di tutto resta l’uomo.

Il divertimento è anche commercio su larga scala. Le convinzioni di Barnum (chiamarle teorie sarebbe troppo) sono alla base della masscult, di Hollywood, della televisione (nel 2002 Olivier Razac ha scritto L’écran et le zoo, un libro dove paragona i reality alle fiere d’un tempo dove venivano esibiti curiosi animali dal volto umano, «mostri», «uomini esotici»), persino di internet. Così, nel 1835, Barnum compra una vecchia schiava, Joice Heth e la esibisce al pubblico dicendo che ha 160 anni e presentandola come «la balia di George Washington» (alla poveretta aveva persino cavato gli ultimi denti per farla apparire più anziana). Sei anni dopo, a Manhattan, acquista l’American Museum e lo trasforma in un teatro dove esibire i suoi fenomeni, l’elefante gigante Jumbo (il Dumbo di Walt Disney è figlio della signora Jumbo!), i gemelli siamesi Chang & Eng Bunker, la sirena delle Fiji (un corpo di scimmia cucito su una coda di pesce), Buffalo Bill e Toro Seduto: «Le attrazioni temporanee del Museo venivano diversificate di continuo, e cani ammaestrati, pulci industriose, automi, prestigiatori, ventriloqui, statue viventi, tableaux vivants, gitani, albini, ragazzi grassi, giganti, nani, funamboli, yankee, pantomime, musica strumentale, una grande varietà di canti e balli, diorami, panorami, modellini delle Cascate del Niagara, di Dublino, Parigi e Gerusalemme; i diorami realizzati da Hannington della Creazione, del Diluvio Universale, della Grotta Fatata e della Tempesta Marina; i burattini inglesi Punch e Judy (per la prima volta in questo Paese), fantoccini italiani, figure meccaniche, preziosi vetri soffiati, macchine per maglieria e altri trionfi delle arti meccaniche; lanterne magiche, indiani d’America che interpretavano sul palco le loro cerimonie guerriere e religiose – tutto ciò, e molto altro ancora, incontrò uno straordinario successo».
Il circo, intanto, è sempre più itinerante e nel 1845 Barnum mostra i suoi freaks alla Regina Vittoria nel corso di un tour in Europa. La star è Charles Sherwood Stratton, il bambino nano ribattezzato Generale Tom Thumb-parodia di Napoleone.
Le autobiografie, si sa, non sono il racconto della propria vita, ma il racconto di come uno avrebbe voluto vivere: i ricordi si trasformano, i vuoti si riempiono, i gesti si enfatizzano, le esagerazioni diventano norma. Per questo Battaglie e trionfi. Quarant’anni di ricordi è una divertente miniera di aneddoti, una galleria di personaggi e di trovate, una sorta di grande sceneggiatura. Su un aspetto Barnum dice sempre la verità: di avere una padronanza assoluta sull’arte pubblicitaria. Non basta avere il prodotto, bisogna saperlo anche vendere, specie in un’epoca che si avvia a fare della comunicazione la sua ossatura. Non per caso la sua autobiografia, alla fine dell’Ottocento, era il libro più venduto negli Usa dopo la Bibbia.

Tempo fa, su Giap, il blog di Wu Ming, è uscita un’interessante riflessione su di lui: «Barnum fu a suo modo un umanista e, per dirla con Leslie Fiedler, “un educatore di massa”. A Bridgeport, una statua in suo onore lo raffigura con un libro in mano. Fece più di chiunque altro nel campo della divulgazione delle scienze naturali: le mostre che allestiva al suo museo non avevano alcun rigore né coerenza, ma misero le masse a contatto con la zoologia, la paleontologia, la botanica, l’etnologia e il “pensiero selvaggio”. Certo, in quelle proposte c’era sempre qualcosa che oggi stride, come il razzismo tipico dell’epoca. Mentalità che a volte Barnum riuscì a trascendere, altre volte no. Fu un convinto abolizionista in tema di schiavitù (tanto da subire un attentato incendiario filo-Confederato), ma detestava i nativi americani. Barnum fu pioniere di tutto quello che oggi ci soffoca: il godimento pre-fabbricato, l’invadenza della pubblicità, la monetizzazione di ogni istante di tempo libero, la pubblicistica How-To e Self-Help, dove apparentemente compri un “metodo”, ma in realtà compri un distillato di ideologia. Uno dei suoi bestseller fu infatti il trattatello The Art of Money Getting. Nel 1890, un anno prima di morire, approfittò della nuova invenzione di Edison, il fonografo, per registrare il primo messaggio commerciale. Le sue memorie fecero da modello per quelle di tanti altri self-made men, che di volta in volta ci infliggono i ricordi dei loro exploit».
La grande lezione di Barnum è che il divertimento è stupore, non noia, non scarsa professionalità. Anche Mark Twain (in appendice ci sono due suoi scritti) non risparmiava critiche a Barnum (considerava il suo museo solo una gigantesca bancarella di noccioline), ma era affascinato dalla sua autobiografia: bollava i suoi spettacoli come un concentrato di dozzinalità, eppure quell’uomo non cessava di stupirlo. Twain, se mai, temeva non già chi imbrogliava per divertire la gente, ma chi cavalcava i babbei per ricavarne vantaggi politici.