La Lettura, 24 giugno 2018
Il dilemma del paguro
Una metafora ci aiuta a sintetizzare il recente libro di Bruno Latour Tracciare la rotta (Raffaello Cortina), una esposizione chiara e incisiva del suo pensiero, uno strumento prezioso per capire qualcosa dei nostri travagliati tempi. La chiamerò «il dilemma del paguro». I paguri sono crostacei marini che si appropriano di conchiglie vuote per farne la loro abitazione. Ogni volta che crescono, sono costretti a lasciare la vecchia casa per avventurarsi alla ricerca di una nuova conchiglia, uscendo all’aperto tra molti pericoli. A un certo punto il paguro raggiunge la massima dimensione, rapportata alla conchiglia più grande che è in grado di trovare. Che cosa succederebbe se il paguro «volesse» ancora crescere?
Questa è oggi la condizione dell’umanità. La crescita economica e dei consumi, disarmonica a seconda delle regioni, delle vicende storiche e dei differenziali di potere, è giunta al massimo livello. La data simbolo, secondo Latour, è il 12 dicembre 2015, quando (quasi) tutti i Paesi del mondo riconobbero, nel vertice di Parigi, che l’aumento delle temperature del pianeta è causato dall’uomo. È il «nuovo regime climatico», l’espressione che il filosofo e antropologo francese usa per definire sia le trasformazioni biologiche e organiche in atto sulla Terra (aumento di CO2, acidificazione degli oceani, scioglimento dei ghiacci…), sia le trasformazioni sociali collegate (migrazioni di massa, aumento esponenziale delle diseguaglianze, imporsi di politiche sovraniste).
Gaia, la Zona Critica del pianeta che ospita la vita, dopo secoli di modernizzazione selvaggia, presenta il conto. Gli altri esseri viventi, ma anche le componenti organiche del pianeta, cessano di essere «natura», cieca e passiva esistenza da dominare, divenendo protagonisti attivi del destino comune che lega la vita in un intreccio indissolubile. È il tempo della geo-politica, in cui le carte fisiche del pianeta e quelle politiche (o «umane», come si diceva nella geografia che studiavamo a scuola), tornano a fondersi.
Quello che non ha più molto senso e che ci disorienta, dice Latour, è un asse che per secoli ha orientato la nostra interpretazione del mondo, l’asse che lega il Locale e il Globale. Fino all’inizio del secondo millennio, ci scontravamo tra sostenitori e detrattori della globalizzazione e del ritorno al Locale (mitizzato sotto forma di identità etnica e territoriale). Non mancava la confusione: se una certa destra, sostenitrice del libero mercato, evocava la globalizzazione, una certa sinistra, a difesa del welfare, chiedeva prudenza e protezioni, guardando alle tutele locali. Se una parte della destra evocava piccole patrie, molta sinistra si batteva per i diritti universali degli esseri umani e per la libertà di definizione del genere sessuale. Eravamo divisi, a volte persino nelle nostre persone, ma orientati dall’asse Locale-Globale.
Oggi tutto è cambiato. L’idea di una globalizzazione intesa come crescita senza limiti, destinata a portare benessere e democrazia a tutti, è finita. Il paguro è troppo cresciuto e nessuno può illudersi che, dall’Africa all’Estremo Oriente fino al Sud America, una popolazione di 7 o 8 miliardi di persone possa permettersi il livello di consumo di risorse del mondo occidentale, degli Usa in particolare. Non si può crescere oltre, soprattutto non si può crescere in questo modo. Lo ha detto, nell’intervista alla «Lettura» del 17 giugno, Amitav Ghosh: l’umanesimo, inteso come visione totalmente antropocentrica e perlopiù eurocentrica, segna il passo.
C’è un’altra data simbolo da considerare, secondo Latour. È il 1° giugno 2017: in quel giorno Donald Trump, con una di quelle che l’autore chiama trumperies (tromperies significa «inganni» in francese, ndr), ritira gli Usa dall’accordo di Parigi sulle emissioni di CO2. Dobbiamo essergli grati, dice Latour, perché con quel gesto il presidente americano ha mostrato – se ce ne fosse ancora bisogno – di incarnare l’esatto opposto di ciò che dovremmo perseguire. Il polo negativo di un nuovo asse.
Locale-Globale infatti non ha più senso: serve un asse diverso, difficile da cogliere e definire. E tuttavia il suo polo negativo, è proprio rappresentato dalle politiche trumpiane: negazionismo climatico, sovranismo (erroneamente definito «populismo»), smantellamento progressivo delle politiche di solidarietà internazionale. Il paguro si ritira nella conchiglia, illudendosi di poter (ancora e di nuovo) continuare a crescere a spese degli altri. A differenza della vecchia globalizzazione, fallita perché costruita su un disegno a senso unico, su una provincializzazione del mondo (ridotto a clone del moderno Occidente), il «polo di Trump» non si propone nemmeno più di diffondere benessere altrove. Si limita a difendere un territorio, pensato (illusoriamente) come delimitato o delimitabile da frontiere. E tuttavia, il clima che cambia non si lascia fermare dai muri. La CO2 si diffonde nel mondo, la plastica viaggia per i mari, le alghe del mar dei Sargassi piegano l’economia dei Caraibi, la temperatura sale anche a Washington. E gli esseri umani, spinti dalla siccità e dalle inondazioni, emigrano in massa per non morire. Qual è allora il polo opposto, verso cui dovremmo tendere per salvarci? Quale piano di realtà contrapporre all’irrealtà delle politiche di chiusura sovraniste, oggi così vincenti? «Cosa c’è di più irreale della Polonia di Kaczynski, della Francia del Fronte nazionale, dell’Italia della Lega Nord, della Gran Bretagna ristretta della Brexit o dell’America Great Again», si chiede Latour? Si può impedire all’anidride carbonica di fluttuare nell’aria e alle rondini e agli esseri umani di muoversi in cerca di cibo e fortuna?
Il Terrestre, così Latour propone di chiamare, provvisoriamente, il nuovo polo. Il Terrestre disdegna l’opposizione destra/sinistra e chiama a raccolta tutti coloro che ritengono che si debba tornare innanzitutto sulla Terra. La fuga in avanti della modernità globalizzata è impossibile, così come la fuga all’indietro verso le piccole patrie. La cura e la responsabilità verso la Terra e i suoi viventi (tutti, non solo gli esseri umani) è il nuovo polo di attrazione di coloro che non credono a Trump e ai suoi emuli europei. È una nuova ecologia politica che abbandona l’idea della «natura» intesa come sfera indipendente e autonoma, a favore di una visione relazionale e interdipendente della vita. Occorre «coltivare i radicamenti» di Latour ed essere sensibili alle richieste di protezione di quelle masse di umanità tradite dalla globalizzazione e in preda a comprensibili visioni millenaristiche. Sapendo però che i viventi a Gaia non conoscono confini, perché si sono sviluppati nello scambio e nell’intreccio, non in bolle separate.