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 2018  giugno 24 Domenica calendario

«L’odio si vince dal basso». Intervista al filosofo Daniel Little

Benché i suoi libri non siano tradotti in italiano, l’americano Daniel Little è uno dei più stimati filosofi delle scienze sociali, i cui interessi riguardano i temi più vari, da lui affrontati anche sul blog changingsociety.org. Di recente ha visitato l’Italia e «la Lettura» lo ha interpellato sui suoi studi.
Il suo lavoro si situa ai confini fra diverse discipline, in particolare tra filosofia e sociologia. Qual è il contributo che la filosofia delle scienze sociali può offrire per una migliore comprensione della realtà che ci circonda?
«Nel Saggio sull’intelletto umano, John Locke scrisse che il filosofo è come “un semplice operaio che pulisce il terreno, rimuovendo un po’ della spazzatura che si trova sul cammino della conoscenza”. È una similitudine ancora molto attuale. La filosofia e l’epistemologia chiariscono i concetti e le teorie utilizzate dagli scienziati sociali empirici, li rendono consapevoli e sensibili all’importanza di solide metodologie e li spingono ad astenersi dal dogmatismo e dalle ipotesi fuorvianti, non solo sul mondo empirico, ma anche sulla scienza. L’analisi filosofica contemporanea ha per esempio sfidato i principi chiave del positivismo novecentesco, aprendo la strada a innovazioni epistemologiche e metodologiche che ora ispirano la ricerca di frontiera in economia, sociologia e scienza politica». 
Una di queste innovazioni, di cui lei è stato pioniere, è il passaggio dall’individualismo metodologico a quello ontologico, che riconosce specifiche proprietà causali alle entità collettive, inclusi i costrutti mentali condivisi. Prendiamo l’esempio delle «ideologie». In che modo insiemi di idee astratte producono effetti riconoscibili in un mondo reale costituito, in definitiva, solo da individui?
«Rispondo con l’esempio del “patriottismo”. Quest’ideologia è un insieme di valori e relazioni: la patria è “buona”, è giusto fare sacrifici per difenderla, dare priorità ai connazionali e così via. Il patriottismo è chiaramente un fenomeno collettivo. Viene generato dalle vite mentali individuali, ma poi acquisisce una dinamica propria, per esempio infondendo i propri valori in certe istituzioni e pratiche sociali (la scuola o il servizio militare), che a loro volta modellano il pensiero degli individui». 
Con il passare del tempo si osservano comunque cambiamenti sia nelle ideologie sia nelle credenze individuali, anche in presenza di robuste pratiche di supporto. Come succede?
«I vecchi valori possono essere sempre sfidati da individui o gruppi. Prendiamo il movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti, nato sulla scia di atti di violenza da parte della polizia contro persone di colore. Il movimento non è “antipatriottico” ma mette in discussione un’ipotesi condivisa dalle concezioni correnti sul patriottismo, cioè che il governo sia neutrale rispetto alla razza. Sostiene che, sì, la legge dovrebbe essere neutrale, ma in realtà non lo è: i giovani maschi afro-americani sono più esposti alla violenza della polizia. La correzione di questo pregiudizio razziale è quindi un dovere normativo che dovrebbe diventare una componente chiave dell’insieme di valori associati al patriottismo».
Rimaniamo sul tema del razzismo negli Stati Uniti. Per quanto deplorevole, l’esposizione alla violenza è solo la punta di un iceberg: la ricerca empirica dimostra che gli afro-americani sono più vulnerabili dei bianchi in una moltitudine di ambiti diversi, dal mercato del lavoro alla sicurezza sociale.
«Gli Stati Uniti hanno ancora oggi un grado di “razzismo strutturale” che non ha eguali in altre democrazie avanzate e che è stato storicamente amplificato da una vasta gamma di pratiche sociali. Un esempio è costituito dai sistemi di trasporto di massa. Per coloro che vivono nei centri urbani (inner city), prevalentemente afro-americani, raggiungere i quartieri esterni (suburb) in cui si concentrano i posti di lavoro è molto più difficile e dispendioso in termini di tempo rispetto alle persone che già risiedono in quei quartieri, tipicamente le classi medie bianche».
In questo caso, una pratica sociale di per sé non collegata alla razza, il trasporto pubblico, finisce per sostenere il razzismo strutturale...
«Un collegamento per la verità esiste. Quando è stata costruita la metropolitana di Washington, la comunità afro-americana fece presente che la mappa della rete non rifletteva le esigenze delle minoranze etniche. Ma la costellazione di potere esistente (essa stessa permeata da norme razziste) ha inibito quelle modifiche che avrebbero favorito gli abitanti delle inner city. Di nuovo un esempio dell’impatto causale che i fenomeni collettivi profondamente radicati nelle strutture sociali esercitano sulle scelte e sui comportamenti individuali».
Il razzismo e più in generale «l’incitamento all’odio» sfortunatamente si stanno ripresentando anche su questo lato dell’Atlantico. Lei ha affrontato l’argomento più volte sul suo blog...
«La proliferazione del cosiddetto hate speech è una delle principali sfide che il Nord America e l’Europa si trovano ad affrontare. Le società nazionali contengono sempre disposizioni latenti alla xenofobia, al risentimento e persino all’odio tra gruppi sociali. Negli ultimi anni vari leader opportunisti hanno attivato tali disposizioni tramite piattaforme politiche mirate, scatenando dinamiche virulente... L’odio è per la politica ciò che l’Ebola è tra i virus: scatena epidemie che minacciano la vita sociale. È probabile che sospetto e diffidenza siano tratti emersi dall’evoluzione sociale e che ancora oggi abbiano la tendenza a prevalere sulle disposizioni alla fiducia. Questo potrebbe spiegare perché è più facile attivare sentimenti di divisione piuttosto che di altruismo e collaborazione: in certi momenti e contesti, leader come Donald Trump hanno una probabilità “naturale” di avere più successo di leader come Barack Obama. Una volta attivata, la politica dell’odio può contaminare l’intera sfera pubblica».
Come contenere questa epidemia virulenta di odio e conflitto tra gruppi che rischia di minare le basi della liberaldemocrazia?
«Occorre prima di tutto sollevare una domanda generale: possiamo pensare a pratiche sociali e progetti istituzionali che abbiano la capacità di modificare (tramite “causalità verso il basso”) la disposizione all’odio a livello individuale? Sì, possiamo. Penso a organizzazioni e ideologie che siano esplicitamente mirate a favorire la collaborazione e la comprensione tra gruppi diversi sul piano razziale, etnico, religioso e così via».
Gli psicologi sociali hanno elaborato la «teoria del contatto» per spiegare la fiducia inter-gruppo: le interazioni pratiche e la conoscenza reciproca sono in grado di neutralizzare o almeno contenere sentimenti di sospetto, risentimento e separatezza. Nella mie ricerche sulle migrazioni all’interno dell’Unione Europea, ho scoperto che i contatti transnazionali fra persone, quelle che chiamo esperienze «Ue-politiche» (in analogia a cosmo-politiche), riducono significativamente gli atteggiamenti «sciovinisti», ossia la chiusura verso i cittadini di altri Paesi Ue, ad esempio per quanto riguarda l’accesso al welfare e al mercato del lavoro. 
«Molto interessante. Nell’area in cui vivo, il Michigan meridionale, caratterizzato da un alto pluralismo etnico e religioso, la creazione precoce (da parte di saggi politici locali) di organizzazioni volte a favorire il dialogo fra comunità ha impedito l’emergere di divisioni e conflitti».
Che tipo di organizzazioni?
«Una delle esperienze di maggiore successo è Access (Arab Community Center for Economic and Social Services), fondata negli anni Settanta da alcuni leader illuminati della comunità araba nell’area di Detroit. Questa organizzazione ha svolto un duplice ruolo: aiutare gli immigrati arabi ad adattarsi allo stile di vita americano, ma anche promuovere relazioni amichevoli interetniche e interreligiose attraverso attività educative, culturali e di assistenza sociale aperte a tutti i residenti, compresi gli americani bianchi. Il Michigan meridionale ha oggi il più basso livello di violenza interetnica degli Stati Uniti. L’esperienza di Access ha attirato l’attenzione di tutta l’America e persino internazionale. Il direttore di Access è stato più volte consultato dal governo olandese».
Forse dovremmo portare questa esperienza all’attenzione del nostro ministro dell’Interno... C’è qualche possibilità che iniziative del genere possano suscitare un contro-movimento rispetto alla politica dell’odio?
«Il problema negli Stati Uniti di oggi è che a livello nazionale lo hate speech è accettato dal partito di governo, i repubblicani, mentre i democratici sembrano incapaci di reagire in modo efficace. Il livello locale è effettivamente l’unica arena in cui un contro-movimento può eventualmente decollare».
In effetti il discorso di Obama, riassunto dalle formule «yes, we can» e poi «yes, we care», è emerso proprio da un contesto locale, quello di Chicago.
«Giusto. Quindi oggi sono molto preoccupato, ma non del tutto pessimista. Invertire la tendenza non è impossibile, negli Stati Uniti e in Europa. Come ho detto prima, le ideologie e le pratiche sono suscettibili di cambiamento. La realtà sociale è eterogenea e plastica, molto sensibile agli eventi e agli sviluppi contingenti. Ciò che fonda, a livello micro, tutti i processi sociali sono sempre gli individui, con la loro capacità di immaginazione e di scelta politica».