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La finestra che dall’ottavo piano si affaccia su Piazzale Loreto mostra una scena di una monotonia irreale. I pedoni, le macchine, il frastuono arrivano come echi di una quotidianità sempre eguale a sé stessa. Ferruccio Parazzoli ogni tanto sorveglia questo spicchio di mondo per ricordarsi che la vita di uno scrittore va oltre le quattro mura di casa, il salotto dove siamo e che i luoghi prima di fare la storia ( non sempre ovviamente) fanno la cronaca: « È singolare come qui sotto le variazioni siano minime, indifferenti ai grandi eventi, eppure a volte accade che qualcosa di traumatico si verifichi e produca sconcerto, disorientamento o, al contrario, partecipazione ed entusiasmo. Vede dove oggi c’è quella bancarella di cinesi? È il punto esatto in cui Mussolini fu appeso per i piedi. I testimoni riferirono che l’aria si era fatta elettrica; la folla, come un sol uomo, spingeva, urlava, rideva, inveiva attratta da quel punto ipnotico in cui un uomo, un tempo potente, temuto e adorato, era finito nella polvere».
Cosa le suggerisce questa immagine?
«Uno che nel proprio credo ha la pietà e il perdono non dovrebbe farsi vincere dal desiderio di vendetta. Ma la storia non sarebbe tale senza traumi anche violenti. Per uno scrittore tutto questo ha un senso molto relativo. Conta il nitore della pagina, l’esattezza di certi dettagli, e il non sapere mai in anticipo dove finirà davvero la storia che sta raccontando».
Vale anche per uno scrittore cattolico come è lei?
«Mi pesa e non mi basta definirmi “scrittore cattolico”, anche se la mia formazione con ogni evidenza ha un’impronta cattolica. Ho studiato in parte dai Salesiani, ho fatto l’università Cattolica a Milano, ho — o meglio avevo — un padre e una madre che hanno legittimato con la loro adesione al cattolicesimo la mia formazione».
Cosa faceva suo padre?
« Era un intendente della finanza. In uno dei suoi trasferimenti nacqui io: a Roma, dove ho vissuto fino alla prima adolescenza. Ricordo le costrizioni del fascismo, la retorica del regime, gli altoparlanti da cui si diffondevano le direttive o le notizie quasi tutte forgiate dall’entusiasmo. Poi arrivò la fame nel lungo inverno del 1943. Nessuno fino a quel momento l’aveva patita con tanta intensità. L’anno dopo la città cominciò a essere bombardata. Dopo quello che accadde nel quartiere San Lorenzo, con mia madre sfollammo a Macerata. Mio padre restò a Roma. Una sera venne a trovarci travestito da prete. Quando la guerra finì ci trasferimmo a Milano».
Perché le pesa definirsi cattolico?
« La crisi del cattolicesimo in questi decenni è stata enorme. La Chiesa con i suoi riti e dogmi è in ritirata. In questa società chi vuole che si occupi più della dottrina? Continuo, quasi un’abitudine, ad andare a messa la domenica, faccio la comunione e ho la netta sensazione che tra i dogmi mi resti solo l’eucarestia».
Resiste quel gesto simbolico, perché?
«È un legame di riconoscente amicizia».
Verso chi?
«Nei riguardi di un sacrificio che mira alla salvezza dell’uomo. Ma sono francamente scettico».
Per questo in un suo romanzo lei fa fucilare il Cardinal Martini e Don Giussani?
«Il libro era La nudità e la spada; dopo un colpo di Stato, dei rivoltosi guidati da una lobby massonica danno la caccia a Don Giussani che si rifugia nell’arcivescovado, guidato da Martini. Scovati, entrambi verranno passati per le armi. Andai da Martini per chiedergli se approvava quella scena. Mi rispose che la narrativa non lo interessava e che facessi quello che volevo».
Ha conosciuto Don Giussani?
«Non tanto quanto il Cardinal Martini. Era un incantatore e c’era un pubblico adorante che lo ascoltava. Don Giussani aveva grande dottrina, elevatezza di pensieri e forza morale. Ma le sue prediche erano ipnotiche e non so se questo sia un bene per chi ascolta».
C’è sempre una costrizione morale nel discorso religioso, non trova?
«Gesù non obbligava nessuno. Le sue prediche erano l’essenza stessa della libertà. Anche Martini, che frequentai a lungo negli ultimi anni di vita, possedeva questa libertà di ascolto e di parola».
Gli ha dedicato un altro romanzo, “Missa Solemnis”. Non ritiene di scrivere un po’ tanto?
«Non si è scrittori se non si scrive. Scrivere è un altro modo che abbiamo di vivere».
Per tanti anni è stato impegnato nel lavoro editoriale, non l’ha dissuasa dal lavoro di scrittura?
« Al contrario, scrivere ha accompagnato costantemente le mie scelte editoriali».
Come è iniziato il suo lavoro di editore?
«La mia tesi di laurea fu sul rapporto tra editoria e narrativa italiana. Il mio relatore, Mario Apollonio, mi presentò a Vittorio Sereni, editor della Mondadori che mi aiutò a entrare al Saggiatore. Feci il mio ingresso in quel mondo nel settembre del 1960».
Il Saggiatore fu creato da Alberto Mondadori. Come è stato lavorare con lui?
«Fu una persona enigmatica. Ricordo con terrore le riunioni editoriali. Lui a capotavola sorseggiava un bicchiere con un liquido ambrato che spacciava per tè, ma era whisky. Parlava pochissimo, i suoi giudizi erano secchi e precisi. Avevano un tono intimidente».
Chi ricorda a quelle riunioni?
«Giacomo Debenedetti, Enzo Paci, Giansiro Ferrata, a volte partecipava anche Sereni e poi c’era la segretaria di redazione, Laura Mazza, si mormorava che fosse l’amante di Alberto. Fu una casa editrice importantissima per quel tempo. Dopo un paio d’anni passai alla Mondadori. Lavoravo con Domenico Porzio. Intanto scrivevo i miei libri. Quando Leonardo Mondadori salì ai vertici della casa editrice, mi offrì di dirigere la narrativa italiana e chiese contemporaneamente ad Alcide Paolini di occuparsi della collana degli Oscar».
E lei accettò?
«Sì, ma Alcide non voleva andare agli Oscar. A quel punto Leonardo si convinse che potevamo scambiarci i ruoli. Paolini andò alla narrativa e io agli Oscar. Era il 1982, per il tascabile da tempo era suonata la campana a morto».
Arrivò dunque come un salvatore?
« Non ero così sicuro di farcela. Ma nell’impresa Leonardo ci buttò dentro un mare di soldi. Cambiammo grafica, impostazione, rifacemmo l’intero programma. Fu esaltante. Per dieci anni ho diretto gli Oscar con ottimi risultati. Alla fine rappresentavano quasi la metà del fatturato Mondadori».
Qual è il ricordo più stravagante?
«Un’intera settimana passata a Milano con Jack Kerouac. Mi pare fosse il 1966. Curioso, dotato di una selvaggia potenza ma anche di una strana timidezza. Aveva lasciato la madre controvoglia perché colpita da un ictus. A volte lo vedevo incedere barcollando per il troppo whisky ingerito. La sua immagine appartiene ai miei morti, a coloro che mi passano davanti mentre li guardo dalla riva del mio Gange. Sono restato in casa editrice per altri vent’anni come consulente. Ho vissuto molte traversie, tra queste la morte di Leonardo. Gli stetti molto vicino durante i mesi della malattia».
Scrisse un libretto sulla sua conversione.
«Gli consigliai di farlo con Vittorio Messori».
Perché in due?
«Perché la malattia lo aveva provato e una persona competente come Messori gli fu di grande aiuto».
Si esercita ancora la solidarietà nel mondo cattolico?
«Credo di sì, non si vede, ma è cresciuta in modo quasi inversamente proporzionale rispetto alla dottrina».
Pensa che manchino gli uomini di riferimento nella fede cattolica?
«Forse ci sono ma probabilmente non amano la visibilità».
Uno di questi fu Don Milani, so che lo ha conosciuto.
«Andai a trovarlo con il poeta Franco Loi, sostammo per tre giorni a Barbiana, dove viveva».
Perché andaste?
«Volevamo conoscere direttamente dalla sua voce le sue esperienze pastorali. Allora, parlo degli anni Sessanta, le parrocchie erano un vero fulcro religioso, come le case del popolo».
Andaste e cosa accadde?
«Don Milani ci ricevette come poteva. Era inverno, fuori la fontana era ghiacciata. I locali della parrocchia erano spogli e freddi, tagliati da banconi sui quali lavorava un gruppo di ragazzi. Don Milani era allungato su una poltrona con un braccio immerso nell’acqua tiepida. Aveva un cancro e l’acqua disse gli dava un certo sollievo».
Che impressione le fece?
«Mi parve un uomo uscito da una pietra, tanto sembrò duro. Era lì a tenere una lezione e ci disse che solo i ragazzi potevano intervenire. Noi potevamo ascoltare, ma in silenzio».
Perché vi escluse dalla conversazione?
« Non potrei giurarlo, ma in quel momento rappresentavamo un’interferenza all’equilibrio che aveva creato. Il pomeriggio ci procurammo in paese delle vettovaglie. La sera mangiammo con i ragazzi in cucina. Avevo saputo che in passato Don Milani aveva amato e praticato la pittura. A un certo punto, gli parlai delle lettere di van Gogh al fratello Theo. Mi sembrava un buon argomento di conversazione. E credo, per degli accenni che c’erano stati, che conoscesse il libro. Ma si rifiutò di parlarne».
Vi viveva come degli intrusi.
«No, perché insieme alla durezza di facciata Don Milani aveva tenerezza interiore che brillava. Credo che fosse solo preoccupato da una nostra presenza troppo superficiale».
Restaste tre giorni.
« Ci mise a disposizione un lettino per due, dormivamo, nel gelo della stanza, uno a capo dell’altro. Fu uno shock. Solo dopo qualche settimana, rielaborando quell’esperienza, vedemmo tutta la grandezza umana. La forza con cui affrontava le avversità».
Per lei cos’è la fede?
« Un atto di volontà consapevole e quindi anche razionale. La ragione non risolve il mistero. Ma ci sono molte ragioni per credere. Per me rappresenta un atto di volontà».
Sembra quasi evocare Nietzsche.
«Anche se lui dice che Gesù era il solo cristiano vero».
La riflessione di Paolo la convince?
«Ha grandi meriti ma questo non vuol dire essere d’accordo in tutto. Dice cose fulminanti. E ha stretto i bulloni della dottrina. Bulloni sfavillanti di pensiero. Ma oggi sono un po’ arrugginiti».
C’è una causa per questa involuzione?
«I motivi sono diversi ma tutti ricompresi nel dilagare di ciò che chiamo nichilismo di massa. Che coinvolge tutti: dai parroci agli scrittori, dal vip all’uomo della strada. Viviamo nell’opacità della parola. Siamo voci disperse e soffocate. Pensavamo che un giorno avremmo camminato sulle acque e invece sguazziamo e ci agitiamo per non affogare».
È la società che va trasformandosi?
«È la società che ha perso i punti di riferimento. Si fabbricano e si usano parole solo in funzione del presente. Ma che cosa è il presente? Una immane didascalia sulle nostre ovvietà e paure. Chiamiamo dibattiti baruffe di cortile, i nostri drammi epocali si riducono alle maschere di chi siede sulle poltrone dei talk show; lo scrittore — ultima larvata coscienza di una società senza più identità — ha poco da aggiungere o chiarire».
In “ Apologia del rischio” ( Vita e pensiero), affiorano tutti i dubbi per l’attuale narrativa italiana.
«Da qualche anno è diventata casalinga per prudenza, per necessità o forse per convenienza».
Cosa intende per casalinga?
«Una letteratura che ha rinunciato al gioco del mistero dello spazio e del tempo. Si moltiplicano gli scrittori orizzontali, che scrivono romanzi conformi l’uno all’altro. Romanzi che se va bene galleggiano come relitti in qualche classifica dei libri più venduti».
Lei predilige una letteratura verticale?
« Si dovrebbe scrivere per scalare qualche parete e non necessariamente la meta dovrebbe essere Dio, perché allo stesso modo si dovrebbe scrivere per scendere in qualche abisso».
Ritiene di essere uno scrittore con queste caratteristiche?
«Diciamo che c’ho provato e che contemplo il fallimento. Il fallimento è una grande esperienza, la paura invece non è nulla di accostabile ».
La tormenta sapere di aver fallito?
« Il tormento è provare a dare un senso alla propria vita sentendosi non all’altezza. Perché la vita è grande, forte, bella ma anche cattiva. Una volta nei corridoi della Mondadori si incontrarono Mario Soldati e Giovanni Testori. Quest’ultimo disse: ieri sera ho ascoltato Beethoven e per la prima volta non ho provato nessuna emozione. Era come se improvvisamente qualcuno avesse sterilizzato il cuore di Testori. Gli lessi la disperazione negli occhi. Per un attimo, di fronte al sorriso sibillino di Soldati, aveva perso il contatto con la bellezza del dolore».