la Repubblica, 24 giugno 2018
Se la grammatica diventa bestseller
Cos’è questa nuova sindrome da assedio che circonda la lingua italiana? Mai s’era vista prima tanta appenata sollecitudine per il suo funzionamento, per le viti e i bulloni della sua macchina, dalle virgole ai congiuntivi, dai due punti allo spazio della frase, promossi a neostar d’una fortunata moda editoriale. Un assillo che invade la rete e le rubriche radiofoniche, bombardate da dilemmi lessicali e dubbi sintattici. E raggiunge tonalità drammatiche nei ripetuti appelli per il salvataggio della lingua madre dalle mire imperiali dell’inglese, ritratto da alcuni linguisti avido e feroce come Gengis Khan. L’industria editoriale suona l’allarme: l’italiano o è da “salvare” – missione rivendicata nel suo libro dal presidente della Crusca Claudio Marazzini (Rizzoli) – o è da riscoprire perché per la gran parte “scomparso”, come recita il titolo del bel saggio di Vittorio Coletti (Il Mulino), o è da accettare “nella forma frammentata della e-lingua” (copyright Giuseppe Antonelli). Comunque fa vendere un sacco di copie. E se la grammatica italiana diventa un bestseller, qualche domanda sarà necessario farsela.
Non saremo diventati sovranisti anche nella lingua, ammesso che gli attuali innalzatori di muri sappiano davvero maneggiarla? Dopo l’Italia agli italiani, anche la salvaguardia d’una italica purezza da improvvide contaminazioni esterofile? Domanda lecita nel paese che ha conosciuto il ridicolo dell’autarchia mussoliniana. Ma lo storico della lingua Luca Serianni allontana il sospetto nazionalista. «Giusto rievocare l’ottusa politica di sostituzione dei forestierismi, ma l’attuale ipersensibilità all’italiano mi sembra di tutt’altro segno. Nasce da una sensazione di minaccia, che in parte condivido. In Europa, nelle sedi istituzionali, abbiamo assistito a un arretramento della nostra lingua, mentre Germania e Francia sono state molto più abili nella difesa del loro idioma. Direi quindi che l’attenzione all’italiano precede le chiusure sovraniste. E un modo per fortificare la lingua sarebbe proprio quello di insegnarla agli immigrati».Se non è sovranismo, in Italia però esiste una questione della lingua. Per capire di cosa si tratti, bisogna recuperare un saggio scritto da Andrea Graziosi e Gian Luigi Beccaria: Lingua Madre. Italiano e inglese nel mondo globale (Il Mulino). Il fenomeno non è solo italiano, ci mette in guardia Graziosi. La perdita di status ha coinvolto tutte le grandi lingue europee di civilizzazione – francese, tedesco e spagnolo – soppiantate dalla nuova lingua del sopramondo che è l’inglese, l’idioma naturale delle élites internazionali nell’economia, nella politica, nella ricerca. «Ma ad acuire la crisi italiana», spiega lo studioso, «è la ristrettezza del bacino italofono, che non può vantare la tradizione coloniale delle altre nazioni europee. A questo si aggiunge il calo del tasso di natalità che ha provocato un ulteriore restringimento dei parlanti». Il risultato per l’italiano è stato un brusco ridimensionamento di status. «E se ancora al principio del XIX secolo il bacino dei suoi parlanti, dialettofoni inclusi, era per ampiezza il settimo del mondo, oggi è scivolato al ventiduesimo posto e si prevede che scenderà al quarantesimo nei prossimi decenni». Da tempo l’italiano non è più la grande lingua che il galateo colto cosmopolita imponeva di studiare. Se fino a trent’anni fa Isaiah Berlin chiacchierava a Oxford in italiano con il suo vicino di casa Denis Mack Smith – giusto per esercitarsi – oggi i sapienti del mondo non si sforzano più di tanto per impadronirsi del nostro idioma. E una editrice accademica come Viella s’è dovuta inventare una collana in inglese per far leggere agli studiosi di Harvard i suoi saggi sul Rinascimento.Alla perdita di status si reagisce con uno scatto d’orgoglio. E questo spiega la rigogliosa fioritura editoriale sulla lingua più bella del mondo. Anche perché l’assedio non viene percepito solo da parte dei battaglioni inglesi. Un’altra minaccia proviene dall’estinzione delle parole “a causa della nostra povertà culturale privata e pubblica, una colpa sociale gravissima”, ammonisce il linguista Coletti in L’italiano scomparso (Il Mulino). E dal fronte tecnologico s’avanza una strana neolingua che è digitata più che digitale, l’incomprensibile balbettio in cui prima o poi ciascuno di noi è destinato a scivolare nell’ineluttabile messaggistica quotidiana. “Ipotesti più che ipertesti”, li definisce Giuseppe Antonelli nel suo fortunato saggio L’italiano nella società della comunicazione 2.0 (Il Mulino). A distinguerli dai testi tradizionali non è tanto la vicinanza al parlato quanto la frammentarietà e l’incompletezza. «E questo spiega perché li possano scrivere anche i tanti italiani che non toccano mai libri o giornali, anche i molti che quando leggono un articolo sul giornale non sono in grado di capire cosa dica». È sempre Antonelli a guidarci verso la bomba atomica che incombe sull’italiano e spiega la diffusa sindrome d’ansietà intorno alla lingua: la consapevolezza che a parlarla correttamente sia una minoranza. Nella nostra coscienza sporca di italofoni pesano le cifre della vergogna decretate da una indagine internazionale di qualche anno fa ( Adult Literacy and Life Skills, 2013): meno del trenta per cento di italiani tra i sedici e i sessantacinque anni è capace di avventurarsi tra gli anfratti d’una proposizione subordinata, restando inchiodato alla fine di quella principale. Ed è forse questo un altro fattore che spinge i lettori più consapevoli a compulsare saggi di grammatica e di lessicografia: per vaccinarsi contro la diffusa “congiuntivite” – così Mariarosa Bricchi in La lingua è un’orchestra (il Saggiatore) – o per imparare ad avvitare i bulloni della punteggiatura. O anche, al contrario, per spingersi fino al perimetro estremo della regola, solo per il gusto di forzarla. In fondo la vita è tutta una “questione di virgole”, per dirla con il nuovo divertente saggio di Leonardo Luccone, che lamenta l’estinzione del punto e virgola e dei due punti, ormai sopravvissuti solo negli emoticon.Gli affollati scaffali di linguistica sorprendono per primi gli stessi editori, che non si aspettavano questo exploit. Piano piano grammatica e lessicografia sono andate traslocando dalla saggistica accademica alle collane per un pubblico più ampio, moltiplicando le edizioni fino a quota diecimila copie per titolo. «Sono cambiati i lettori. Ed è cambiato il modo di trattare questi temi, sempre meno prescrittivo e sempre più aperto al racconto», dice Biagio Forino, editor per Il Mulino. Se prima prevaleva lo stile severo del prontuario normativo, oggi il ragionamento è meno autoritario, con un largo margine di tolleranza per chi dirazza. «Non sono più ammesse le matite rosso-blu», scherza Forino. «L’idea ispiratrice è sempre quella di colmare la distanza tra l’uso colto della lingua e l’uso quotidiano, secondo la grande lezione civile di Tullio De Mauro». L’editor confessa di far parte di quella generazione che ancora considera sospetto e disdicevole l’uso di “gli” riferito a più persone: “gli ho detto” invece che “ho detto loro”. «La lingua cambia e bisogna imparare a lasciarsi andare. Noi soffriamo ancora un po’, ma nessuno ci fa più caso».In questo rinascimento italofono, non potevano mancare i consigli per arricchire il patrimonio lessicale. L’italiano dei ragazzi è andato restringendosi in questi anni, poco oltre il nucleo fondamentale delle duemila parole individuato da De Mauro. Da dove possiamo ricominciare? «Dalla lettura dei quotidiani», risponde Serianni. Nella sua raccolta di saggi Per l’italiano di ieri e di oggi (Il Mulino), lo studioso rileva un dato singolare: sono gli articoli di giornale e non i romanzi a ospitare l’italiano più tradizionale, «quello debitamente registrato dai dizionari dell’uso e tesaurizzato dai repertori di sinonimi». Serianni ha cercato parole come “rampollo”, “vegliardo”, “giulivo”, “ilare”, “altezzosità”, “iattanza”. Le ha trovate nei quotidiani, non nei libri di narrativa coevi che prediligono “la lingua ipermedia” di cinema e tv. E se fossero proprio i giornali a salvare la lingua italiana, a frenarne l’emorragia? Una bella responsabilità. Non dovremmo dimenticarcene.