Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto
La prossima canzone è dedicata a questo gruppo piuttosto irrequieto”. Urla di approvazione da quella parte di pubblico che, scavalcati i cancelli, circonda il palco su cui canta Joan Baez. Qualcuno grida di rimando: “Canta per gli italiani adesso!”. Lei gli fa un verso: “Uo uo uo uo!”, come a dire di non blaterare a vanvera e poi attacca “C’era un ragazzo che come me/ amava i Beatles e i Rolling Stones”: la renderà famosa in tutto il mondo. Il concerto va avanti tra varie schermaglie finché non arrivano i carabinieri proprio mentre Joan Baez inizia Farewell Angelina: “There is no need for anger/ there is no need for carabinieri” intona cambiando la seconda strofa (“non c’è bisogno di rabbia/ non c’è bisogno di carabinieri”). La gente capisce e scoppia un boato. Applausi. Gli animi si placano e il concerto può ricominciare. Lei non sembra infastidita, anzi è quasi commossa dalle manifestazioni di un pubblico rumoroso ma appassionato. Era il 24 luglio del 1970. Joan Baez oggi è una leggenda vivente ma se qualcuno non la conoscesse, il consiglio è di ascoltare Joan Baez all’Arena civica di Milano il disco che ritrae questo momento storico ( e di cui si trova anche una incredibile testimonianza online digitando come chiave di ricerca titolo e data). Forse non c’è nella storia un altro album dal vivo capace di raccontare, attraverso un dialogo con il proprio pubblico, la passione politica, l’impegno civile, il pacifismo, l’aspirazione a un mondo migliore, meglio di questo disco. E poi c’è la musica: solo una chitarra acustica e la voce cristallina di Joan Baez che interpreta brani come Love Is A Four Letter Word o Where Have All The Flowers Gone. Una voce così bella e pura che quasi fa male. Salto temporale: 2018, Amsterdam. L’occasione per parlare di questo e molto altro è unica così come la possibilità di vederla in concerto perché Joan Baez ha dichiarato che quello che in agosto passerà anche dall’Italia sarà il suo ultimo tour.
Il 24 luglio del 1970 lei fece un concerto all’Arena di Milano che, tra contestazioni, pioggia, partecipazione del pubblico, è rimasto nella storia.
».
Che cosa successe davvero quella sera?
«Ero furiosa con i carabinieri perché avevano iniziato a dare la caccia a un gruppo di hippies che si erano messi intorno al palco! Certo, la situazione del posto era fuori controllo dall’inizio: c’erano dei cancelli che impedivano alla gente di venire sul prato e così a poco a poco tutti hanno iniziato a oltrepassarli scavalcandoli. Poi si è messo a piovere e molti sono saliti sul palco per ripararsi. C’erano quelli che gridavano “ W Mao!” e anche quelli che gridavano “ W la Duce!”. C’erano qualcosa come trentamila persone in quello stadio! I carabinieri poi se ne sono effettivamente andati e così quando il concerto è finito non avevo nessuno che mi aiutasse a uscire».
Ma lei parla un po’ italiano? Perché quando uno del pubblico le ha urlato di cantare per noi, lei ha intonato il brano anti-Vietnam “C’era un ragazzo”...
« Davvero? No, è stato un caso. Non ricordo benissimo tutto se non che c’era un caos assoluto: il palco era bassissimo e dietro c’erano delle corde per impedire il passaggio ma quelle corde in realtà non significavano nulla, bastava superarle! Ognuno gridava la sua cosa: “ Noi siamo i maoisti!”, “ Noi siamo i comunisti!”, “ Noi siamo la gente ricca!” (ride, ndr). Era un delirio. Ma erano tutti molto gentili. Qualcuno a un certo punto mi ha anche dato il suo portafoglio, non so perché! Mentre cercavo di uscire tenevo la chitarra in alto ma qualcun altro l’ha presa e si è messo a portarla per me. Ho chiesto a Furio Colombo che lavorava per la tv italiana il perché e lui mi ha detto “ Pensano che sia una sorta di simbolo e vogliono prenderla per esserti vicino”. Poco dopo ho visto i suoi occhiali caduti rompersi, schiacciati dalla gente ».
Un periodo folle.
«Certo, un periodo folle. Ma anche un periodo molto importante».
Lei quando ha capito di saper cantare così bene?
«Ci sono stati diversi momenti. Quando avevo quindici anni mi sono resa conto di avere una bella voce. Ma già quando avevo tredici anni cercavo di lavorarci: stavo davanti allo specchio facendo “Ah, ah, ah” perché volevo riuscire a fare il “vibrato”. E poi a un certo punto arrivò. Da solo, senza sforzo».
La sua figura è stata fondamentale per le lotte per i diritti civili negli anni 70: è una cosa che c’era già in famiglia? Sua padre era un fisico che rifiutò di lavorare al progetto per la costruzione dell’atomica...
«Dopo il rifiuto mio padre si avvicinò ai Quaccheri perché era l’unica chiesa a rifiutare radicalmente ogni forma di violenza».
Ha iniziato a salire sul palco da giovanissima. Non ha mai avuto paura?
«Ero terrorizzata. Prima di suonare mi sentivo come una medusa, senza ossa. Non riuscivo quasi a reggermi e dovevo chiedere a qualcuno di buttarmi sul palco. Col tempo è passata».
Lei ha lottato tutta la vita per un mondo migliore, è stata anche in prigione per le sue idee. E oggi c’è Trump.
« Un giorno ho avuto una conversazione con una persona che lavorava per me alla parte tecnica ed è venuto fuori che aveva votato per Trump. Era pieno di rabbia verso i liberal, così gli ho chiesto se non c’era niente di lui che gli desse fastidio, per esempio quella frase sul “ pussy grabbing”. E lui: “ Sono solo ragazzi”. E il fatto che è un razzista? “Ci sono troppi immigrati”. Io: “Che fanno i lavori che non vogliamo fare”. Non c’era nessuna affermazione razionale in grado di fargli cambiare idea. Ero molto arrabbiata, stavo perdendo il controllo ma alla fine l’ho ringraziato per essersi fidato di me tanto da dirmi quello che pensava anche se sapeva che non sarei stato d’accordo. Oggi lavora ancora con me».
Ma come è potuto succedere tutto ciò dopo un presidente come Obama?
« Proprio a causa degli otto anni di Obama. Tutto il processo di integrazione che lui ha messo in atto l’ha fatto odiare da quel mondo nato con il Tea Party. Ma non ci siamo accorti di questa rabbia perché avevamo noi il microfono. Loro si sono sentiti isolati e hanno iniziato a odiarci perché gli sembrava di stare perdendo quelli che consideravano i loro diritti e che invece erano solo i loro privilegi».
Perché ha deciso di smettere con i tour?
«Perché ci sono molte canzoni che non riesco più a cantare. Non ce la faccio a raggiungere certe note e non riesco ad accettarlo. Per questo ci ho messo dieci anni per fare un nuovo disco. Adesso voglio dedicarmi all’altra mia passione, dipingere. Quando avevo trent’anni ho chiesto al mio primo “vocal coach”: “Quando pensa che dovrò smettere?”. “Sarà la voce a dirglielo”, mi ha risposto».
Bob Dylan non ha di questi problemi...
«Beh, non ha di questi problemi perché non ha mai avuto una voce! (ride, ndr) ».
Siete ancora in contatto?
«No. Ma so che recentemente ha detto cose molto belle nei miei confronti. Era un genio. Ed era tutte le cose che amavo. Era un ragazzo quando ci siamo conosciuti. E sembrava molto incasinato. Ferito. Avevamo ciò che chiamiamo “ matching wounds”, ferite che si completavano. Cose di cui nemmeno sei conscio ma capita che scegli una persona proprio per quello».
All’inizio era lei quella famosa: portò Dylan sul palco nei suoi concerti...
«Sì è vero. E il pubblico lo fischiava e io li sgridavo. Dicevo loro: “Dovete ascoltarlo bene e vedrete! Adesso state tranquilli!”. Ero come una vecchia maestra. E così l’hanno ascoltato. E presto, molto presto si sono resi conto che c’era qualcosa in lui».
Lei ha dedicato a Dylan una canzone bellissima, “Diamonds & Dust”.
«È forse l’unico mio pezzo di cui sono state fatte varie cover. Una volta mi si avvicina un tizio di una band heavy metal completante drogato, pieno di borchie e di croci, che mi dice: “Le sue canzoni mi hanno ispirato così tanto quando ero ragazzo che dovevo fare assolutamente questa cover!”. Ero stupita: era arrivata proprio a tutti».
Che cosa ne pensa del premio Nobel a Bob Dylan?
«Non mi interessa discutere se la musica è o no letteratura. Dylan ci ha dato così tanto, in maniera così brillante, che penso che questa sia l’unica cosa che conti».