la Repubblica, 24 giugno 2018
Chichita, la donna che blindò i segreti di Calvino
La prima volta che l’ho vista era seduta al bar, stringeva tra le dita una sigaretta e aveva l’aria di chi la sa lunga. Poi ho capito che l’intelligenza strafottente di Chichita era qualcosa di più d’un abito mentale, era una forma di vita, perché lei sì che aveva vissuto e lo sapeva anche raccontare. Il suo nome da ragazza era Esther Judith Singer, argentina di nascita, nata nel 1925 in una famiglia d’origine ebraica, buona borghesia colta di Buenos Aires. Cosmopolita Chichita Calvino – così è sempre stata conosciuta – lo era davvero, perché dopo essere vissuta nella capitale argentina era approdata a Parigi, dove ha conosciuto Calvino. Era il 1962 e lo scrittore italiano era un affermato membro della società letteraria italiana. Se ne era andato dal Partito Comunista dopo la crisi dell’Ungheria, aveva fatto un lungo viaggio negli Stati Uniti e ora gravitava su Parigi, allora la capitale culturale d’Europa, e forse del mondo. Era lì per delle conferenze e Chichita – il soprannome le è rimasto appiccicato dall’infanzia – frequentava Elvira Orphée, scrittrice argentina, moglie di Miguel Ocampo, a sua volta imparentato con il giro di Borges. Fu Elvira a presentarla all’italiano. Esther era una traduttrice e lavorava per l’Onu, parlava un’infinità di lingue e soprattutto sapeva narrare.
Chi l’ha frequentata più di me, per esempio Mario Barenghi, uno dei tre curatori delle opere di Calvino nei “Meridiani”, ha sempre detto che la prima prerogativa di Chichita era la parola. Non la parola seducente, bensì la parola fluente, quella del racconto. Non c’era persona o tema su cui lei non avesse qualcosa da dire, qualcosa di sorprendente, d’inatteso, di suntuoso. Come imparai quella prima volta e le altre – non molte purtroppo – che l’ho incontrata, Chichita era conversatrice affascinante. Aspirando voluttuosamente la sua immancabile sigaretta, con la grande eleganza delle donne di un tempo, si metteva a raccontare, parlava non solo e non tanto di Italo, come lo chiamava, ma di mille altre persone e luoghi e occasioni. Sembrava avesse incontrato tutti, le persone eminenti, anche quelle che non lo erano, e che sulle sue labbra vivevano ora una vita d’incanto. Così anche al telefono. Nei vent’anni che l’ho frequentata, per lo più con la cornetta all’orecchio, era sempre un piacere starla a sentire. La chiamavo per sapere qualcosa delle opere di Calvino, un dettaglio, un’informazione, o per avere un permesso per qualche pubblicazione.Subito dopo aver risposto prendeva a narrare di suo, d’altro.Barenghi, con cui ho condiviso tanti aneddoti di Chichita, si è riferito a lei come se appartenesse a un tempo remoto, una specie di dinosauro. Chichita era Qfwfq, il proteiforme personaggio delle Cosmicomiche: remota e insieme futuribile. Per quanto fosse una narratrice orale formidabile, e perciò rivolta al passato, sapeva raccontare anche il presente. Nel ventennio berlusconiano i suoi giudizi sull’Italia, suo paese d’adozione, erano trancianti e ficcanti, sempre molto acuti. Coglieva i dettagli del personaggio e li metteva in luce.Si era sposata con Calvino nel 1964 all’Avana. Era il secondo matrimonio e aveva già un figlio, che ha vissuto con lei e Italo, prima a Torino, poi a Roma. Nel 1965 è nata Giovanna, e due anni dopo si erano trasferiti a Parigi, dove, come ha scritto Calvino stesso, pensavano di stare per pochi anni nella villetta di Square de Châttilon. Invece furono quindici. Nel 1980 si erano trasferiti a Roma. Solo cinque anni lì insieme: nel 1985 Italo muore.Da allora è stata la sua erede e custode. Un ruolo non semplice. Così è stata la sua editor postuma e la depositaria delle carte del marito. La leggenda narra che i manoscritti di Calvino siano giaciuti sotto il suo letto, in valigie e contenitori. Gli studiosi che li hanno potuto consultare, i curatori dei “Meridiani”, che li citano, hanno sempre raccontato del tesoro d’informazioni che contengono. Chichita non aveva mai deciso in modo definitivo cosa fare di quegli scartafacci preziosi, un pezzo della storia letteraria del nostro paese. Le sue scelte editoriali, le pubblicazioni degli inediti del marito, sono state improntate a quello che Barenghi ha definito l’ipercorrettivismo. Grazie a lei abbiamo avuto le Lezioni americane, poi gli inediti autobiografici e anche i racconti non finiti dei cinque sensi. Un ruolo difficile. Adesso che l’abbiamo persa, dopo una lunga malattia, restano i ricordi non scritti delle sue storie e poi quel cumulo di quaderni e fogli, fitti di cancellazioni e correzioni, pagine dove Calvino ha combattuto la sua complicata battaglia con le parole, una selva di rami e frasi, che Chichita ha custodito così a lungo tenendola presso di sé quale ultimo legame con il suo silenzioso marito scrittore.