la Repubblica, 24 giugno 2018
In che razza d’Italia ci ritroviamo
Quando è uscita la prima edizione di questo libro speravo, beata ingenuità, che negli anni la razza sarebbe diventata sempre più irrilevante nel dibattito politico e sociale. Non dico che ne fossi lucidamente convinto; lo davo, in un certo senso, per scontato. Mi sbagliavo, e a dodici anni di distanza è giusto che mi domandi perché, che è poi quello che ogni tanto qualcuno mi fa notare: ma come mai c’è un divario così grande fra quello che dici tu sulla razza e quello che pensa la gente?
Mi vengono in mente tante risposte, il che forse significa che non ne ho ancora trovata una veramente buona. In parte, è un problema antico: quando le cose sono più complicate di come ce le immaginiamo, e spesso lo sono, accettare le conclusioni degli scienziati non è semplice. Vale per chi si occupa di genetica, come per chi cerca di mettere in guardia contro diete miracolose o terrificanti leggende sui vaccini. Ci vuole tempo: modificare luoghi comuni consolidati non è facile né rapido. Nel Seicento era stato difficile mandar giù l’idea che la Terra gira intorno al sole. “Sono stato fermo tutto il giorno; stamattina il sole stava di là, adesso sta di qua, quindi si è mosso lui” sembrava un ragionamento di buon senso. “Lei ha la pelle nera, io bianca, quindi ci sono le razze” è un discorso altrettanto ricco di buon senso, e altrettanto sballato. E quindi ci vorrà ancora un po’ per digerire il dato di fatto che le differenze biologiche sono variazioni su una tavolozza i cui colori sfumano impercettibilmente l’uno nell’altro.Ma c’è dell’altro. La sensazione di molti esperti è che oggi il dibattito politico e sociale tenda a prendere una sua strada, nella quale la realtà conta fino a un certo punto. Le fake news, le bugie diffuse ad arte con cui si mettono in difficoltà gli avversari o si creano i presupposti per azioni brutali, sono solo la punta dell’iceberg. Giusto ottanta anni fa, nel 1938, l’Italia varava le leggi che privavano dei diritti civili i cosiddetti cittadini italiani di razza ebraica, e insieme a loro dieci milioni di libici, somali, eritrei e abissini, sottoposti all’occupazione coloniale italiana. Per preparare il terreno, il regime fascista chiedeva il contributo di giornalisti famosi e abili propagandisti, ma soprattutto dello stato maggiore della scienza italiana, chiamato a redigere un documento oggi noto come Manifesto degli scienziati razzisti. Dieci slogan, culminanti nel famoso “È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti”, ognuno accompagnato da un conciso ma efficace paragrafo di spiegazione. Era cattiva scienza quella del Manifesto, e non c’era bisogno di aspettare lo studio dei genomi per accorgersene. Ma un documento del genere rivela il timore che, senza qualche giustificazione scientifica, gli italiani, gli italiani degli anni Trenta del fascismo trionfante, avrebbero potuto storcere il naso davanti alle nuove leggi razziali. Oggi invece il discorso razzista prescinde da ogni rapporto con ciò che dice la scienza. Le politiche discriminatorie vengono invocate attraverso parole d’ordine (“Prima gli italiani”; “Stop invasioni”; “Padroni a casa nostra”; “Schiavi dell’Europa? No grazie”) che non hanno bisogno di giustificazioni, men che meno scientifiche. È caduto l’ultimo velo, ci si proclama francamente razzisti e basta.La razza è la lente deformante attraverso cui generazioni di naturalisti, antropologi e genetisti hanno guardato le differenze umane, finché si è dimostrato che con quella lente lì non ci si capisce niente. Invece il razzismo ha a che vedere con i nostri diritti, e con la pretesa che a origini, pelli o passaporti diversi corrispondano diversi diritti. Non è necessario credere all’esistenza di razze umane per proporre politiche discriminatorie o xenofobe. Non hai il diritto di fare quella cosa perché sei negro, perché sei immigrato, o perché sei musulmano, sono tre affermazioni equivalenti, di cui solo la prima è, in senso stretto, razzista.Ricostruire uno spazio per una discussione costruttiva, in cui non si buttano a mare conoscenze e competenze, puntando a soluzioni condivise e non solo ad accaparrarsi consensi, è una delle grandi sfide della contemporaneità. A furia di parlare solo di dettagli, di muri da costruire, di permessi di soggiorno da negare, si rinuncia a guardare le cose da una prospettiva più ampia.È un po’ come tornare bambini: si vive nel presente, delle cose più grandi si occupano i grandi. Invece bisogna sforzarsi di essere adulti. E qui essere adulti significa mettere le cose in prospettiva: capire perché la gente migra, non oggi o ieri, ma da sempre; capire da dove vengano e quanto grandi siano le nostre differenze; e anche, naturalmente, perché da tanti queste differenze sono percepite in maniera accentuata o distorta.