la Repubblica, 24 giugno 2018
Ecco dove nasce l’odio di Trump per il Maggiolino
Tutta colpa del Maggiolino. La guerra di Donald Trump alle auto tedesche è la tardiva vendetta di un anziano miliardario che vuol saldare il conto con quel mito del Made in Germany che la macchinetta accolta tra le risate dei costruttori americani lanciò dal suo sbarco in America, nel 1949. Dimentichiamo la politica e gli scontri commerciali,i dazi e il Nuovo Disordine Mondiale creato dalla Amministrazione in carica.
Nell’odio di Trump per i marchi sfornati dalle linee di montaggio a Monaco, Stoccarda o Wolfsburg o dalle loro fabbriche nel mondo c’è il rancore di un nazionalista che ha visto l’impero di Detroit sgretolato dall’impudenza e dall’abilità degli sconfitti in guerra. E ha prodotto l’ultima variante nell’ideologia trumpiana: il Nazional Automobilismo.E all’inizio fu lei, “The Bug”, come fu ribattezzata in America l’ auto del popolo voluta Hitler nel 1938 e concepita da Ferdinand Porsche, l’“insetto”, a lanciare quel rapporto di odio-amore degli americani per le macchine importate dalla Germania.
Quando arrivò negli Usa, nel 1949, il Maggiolino, vendette un totale di una macchina su due importate. Sulle autostrade americane costruite dal presidente Eisenhower negli anni 50, quella cosina a ruote, dotata di un motorino da 30 cavalli e prodigiosamente scomoda, era un oggetto di dileggio per i trionfatori della Seconda guerra mondiale e una fonte di divertimento per le Tre Sorelle di Detroit che producevano, negli anni 50, i tre quarti di tutti gli automezzi fabbricati nel mondo, pompando muscolose auto da cinque litri e pinne cromate.
Furono gli anni 60 a decretare il successo di un’auto che avrebbe spalancato le porte della venerazione per la superiorità ingegneristica dei tedeschi e il terrore per la pacifica Normandia alla rovescia guidata da armate di BMW, Mercedes, Volkswagen e Porsche. “The Bug” divenne il veicolo della Controcultura, lo strano ovetto metallico sul quale sarebbero stati concepiti più bambini e fumate più canne di quante mai un’auto avrebbe accolto, sotto verniciature psichedeliche e sesso libero, anche nei più comodi minivan Europa, carovane di piccole tribù di figli dei fiori e di hippy. Quando l’imbronciato simbolo di una ribellione senza una causa, Jimmy Dean, si immolò sulla propria Porsche – la sorella agli steroidi anabolizzanti dell’umile Maggiolino – il mito acquisì la necessaria dimensione tragica.
Le Tre Sorelle di Detroit, Ford, Chrysler e General Motors, smisero di ridere. La loro incapacità di immaginare o produrre auto affidabili ed economiche, la notoria approssimazione di macchinoni che si piantavano capricciosi mentre le tedesche non si fermavano mai, divenne catastrofe negli anni 70, quando il triplicarsi del prezzo del petrolio nel 1974 rese insostenibili i consumi dei pachidermi “Made in Usa” e persino la timida 128 Fiat ebbe un anno di effimera gloria, il copione era scritto. I tedeschi, quegli stessi geni malefici dell’ingegneria bellica che avevano lanciato i primi missili balistici, fatto volare i primi jet e scaricato le prima bombe “intelligenti”, sapevano fare le auto meglio. Lusso e aggressività motoristica divennero prerogativa del Made in Germany. Se i vecchi danarosi restavano nostalgicamente aggrappati alle Cadillac e i giovani con eccesso di testosterone guidavano le Corvette, le élite parlavano tedesco. La Volkswagen osò produrre negli anni 90 spot esaltando il Fahrvergnügen , il piacere di guidare, una parola impronunciabile per gli americani, studiata per marcare anche linguisticamente il loro successo. In un estremo insulto all’orgoglio nazionale, persino Barbie fu venduta a bordo di un Maggiolino Cabrio rosa shocking.
Mentre Trump oggi raglia contro le barriere doganali, la barriera più alta è culturale. Non troverete nessun lupo o lupacchiotto di Wall Street al volante di un’americana, nessun intellettuale, nessuna stella dello spettacolo su una Chevrolet e se l’impero dell’ingegneria tedesca è minacciato, sono gli asiatici a insidiarlo. Il protezionismo Nazional Automobilistico della destra trumpista non riporterà mai Detroit ai fasti degli anni 50.
Sarà l’ ultimo hurrah di una generazione che perse il minibus della rivoluzione culturale e si illude di riportare indietro il calendario del tempo perduto.