la Repubblica, 24 giugno 2018
Quei giocatori figli di due Paesi. Benvenuti ai mondiali della diaspora
Homeland, in versione calcio. Anche il pallone ha la sua diaspora. A chi si appartiene: al ventre che ci genera o al cuore che ci cresce? Il melting-pot, vanto dell’America, ora passa agli undici in campo (e anche a quelli in panchina). E si è traditori se si sceglie un nuovo passaporto? Se la storia, la guerra e la fame, o più semplicemente la globalizzazione, scombussolano i nostri paesi e le nostre case, noi a chi dobbiamo riconoscenza e identità? E soprattutto: per chi dobbiamo tifare, per chi ci accoglie e ci regala un futuro o per chi ci stampa addosso il passato?
Insomma, la nazionalità. Quella che abbandoniamo, quella che prendiamo, quella in cui ci riconosciamo. Anche se non parla con la lingua di nostra madre. Problema attuale anche in un mondo calcistico diviso tra fedeltà e modernità. Quando devi cantare un inno e dare tutto per novanta e più minuti, di chi sei? E a chi vuoi appartenere?
Il pallone ha risposto alla domanda in modo diverso: c’è chi ha privilegiato il paese dei padri e chi quello dei suoi figli. A volte a rispondere è il sangue, quando hai patito ingiustizie e ti si gonfia la vena, torna la paura di quando eri bambino, pronto a urlare la tua rabbia per le radici strappate. E fai quel segno lì: dell’aquila a due teste, che venerdì sera tanto ha fatto arrabbiare i serbi. Pure se ormai vivi in un paese dove non si butta la carta per terra e giochi magari in Inghilterra. Il 9% dei calciatori ai Mondiali è nato in un paese diverso da quello per cui gioca: sono 82. Mettiamo appunto la Svizzera, paese molto neutro: la sua nazionale ha un ct, Vladimir Petkovi?, nato a Sarajevo, con tre cittadinanze, croata (ius sanguinis), bosniaca (ius soli) ed elvetica (acquisita). In squadra ci sono Granit Xhaka (primo giocatore con la X a segnare ai mondiali), figlio di genitori scappati da una Pristina distrutta, Xherdan Shaqiri, nato in Kosovo, ma anche lui costretto a fuggire con la famiglia in Svizzera, Valon Behrami (Kosovo) e Blerim Dzemaili, che viene da Tetovo, oggi Repubblica della Macedonia, ieri Albania. Per non parlare degli altri: tre sono nati in Camerun (Moubandje, Embolo, Mvogo) uno a Capo Verde (Gelson Fernandes) e uno in Costa d’Avorio (Djourou).
Granit Xhaka ha un fratello, Taulant, anche lui giocatore, ma nell’Albania, infatti all’Europeo i due hanno giocato contro e la madre in tribuna sventolava due bandiere. Lo stesso Paul Pogba che gioca con la Francia ha un fratello nato a Conakry sull’Oceano Atlantico nella nazionale della Guinea.
Si sceglie: per cuore, per soldi, per ripicca, per convenienza, per sogni, perché si ha la possibilità. Al Marocco va dato l’Oscar dei transfughi (62%) e di quelli che non usano la stessa lingua: 8 nati in Francia, 5 in Olanda, 2 in Spagna, 1 in Svizzera e 1 in Belgio. È marocchino di ritorno Benatia, nato nella Francia settentrionale da madre algerina. Anche il Senegal con il 40% non scherza: otto francesi e uno spagnolo. Idem la Tunisia: nove di nascita francese. La Spagna ha due brasiliani: Diego Costa e Rodrigo e un italiano, Thiago Alcantara, di San Pietro Vernotico, in provincia di Brindisi, figlio del giocatore Mazinho. Mischiano Australia, Serbia, Croazia, Nigeria. Joachim Löw, ct della Germania, che ha dovuto gestire il caso di due suoi giocatori di origini turche, Mesut Özil e Ilkay Gündogan, che si sono fatti fotografare con il presidente Erdogan, dice che i figli degli emigranti «hanno due cuori chebattono nello stesso petto e i due muscoli spesso non sono facili da gestire nello stesso momento».
Marouane Fellaini, centrocampista del Belgio e del Manchester United, ha il passaporto del Marocco. E nella nazionale belga in quale lingua credete si parli? In inglese, nonostante il paese abbia tre lingue ufficiali (fiammingo, francese e tedesco). Perché 11 giocatori su 23 giocano in Premier League e il ct Roberto Martinez, che è spagnolo, ha allenato molto in Inghilterra. In più il capitano Hazard non sa il fiammingo e il difensore Meunier dice che la scelta di un allenatore straniero «è stata ottima». Soprattutto perché ha allontanato le polemiche linguistiche e tutto quello che c’è dietro: «Meglio un coach neutro.
Quando sulla panchina c’è stato Vandereycken tutti i valloni lo contestavano, quando c’è stato Wilmots a essere polemici erano i fiamminghi. Come se l’origine fosse una colpa da espiare».United People of Football. Dove il calcio permette di cucire (e a volte di scucire) continenti, religioni e lingue. Perché alla fine si è tutti fiumi in cerca di una porta e del grande mare.