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 2018  giugno 23 Sabato calendario

Suona il Gong il mondo ariostesco di Eliseo Mattiacci

Che cosa chiediamo, in fondo, a quella poca arte «vera», che ancora ci possiamo permettere? (e non quella da supermercato televisivo, che invade ogni dove e mai s’esurisce. Incellophanata decotta dalla pappardella ferale della povera salariata di galleria, che appena hai varcato la porta, senza attender assenso, innesta il pilota automatico di schiocchezzai critici, che ti verrebbe da barrire, e deglutisci invece clemente. Ma sai che quella, esaurita sociologicamente, non sarà mai arte). Ti basta in fondo provare un poco di turbamento sano, di disorientamento euforico: avvertire un’inquietudione per qualcosa che senti, senza esigere esplicative tiritere precotte, per quello stupore incerto, irrequieto, da motori nautici, arenati come arruginite conchiglie notturne. E magari ti fa dondolare il cervello su dei plafonds ingannevoli, cedevoli. Ecco: è quello che provi entrando perplesso, letteralmente entro un’opera, che proviene da galassie espositive planetarie, 1975, e che ha titolo non casuale di: Recupero di un mito. I penetrali austeri del Forte del Belvedere si prestano magnificamente ad accogliere questa sorta di pista da rodeo, di maneggio per umani (che sia il circo impossibile di  America di Kafka?) pista pestata da mille orme, flaccida di deportata sabbia vera, in cui affondi le tue zampe di pseudo-civile e allora affondi a difficoltà in questo no man’s land espositivo, ove alle pareti (fotografati forse da Edward Curtis) ti scrutano severi e rivendicativi vecchi capi sioux e logorate squaw, sorteggiate da vessate tribù indiane. Che ti trapuntano con i loro occhi punitivi, come in un rito di condanna. 
Ma se osservi meglio, ti accorgi che mimetizzato tra loro, come a condividere il destino ma anche a declinare il ruolo imperativo dell’Artista, si nasconde una, due, tre volte (poi ti sorge persino il dubbio che sia tu che, confuso, impresti i suoi tratti a dei veri nativi, riverberando l’incertezza) lo stesso Eliseo Mattiacci maquillato di terra marrone grazie alle fotografie di Claudio Abate, carnascialmente travestito da indiano d’America. 
Le frecce abbracciate al corpo, che diverranno poi una delle sue arme scultoree: innocue ma propulsive. Del resto, dal mare ondulato di sabbia, si sollevano come due delfini spiaggiati in piombo alchemico: due lunghi, dilatati proto-cannocchiali prescientifici, cui presti i tuoi occhi storditi. E sotto la pelle della sabbia intravvedi come l’atelier sommerso dei materiali basilari della pratica artistica, inespressa.Scodellini e pigmenti (quelli che Klein, Parmiggiani, Pascali esaltavano in quegli anni) anche se l’artista ha qui deposto l’ascia del pennello. Sono gli anni in cui le gallerie si trasformano in galere, in garages, in far west, Kounellis vi porta i suoi cavalli e pappagalli veri, Pascali i suoi bruchi spazzolanti, Fabio Mauri, a furia di calamitanti pallini di poliestere, ti fa oscillare anche lui, come sul romanesco, agguantante suolo lunare. Un po’ di sabbia petulante ti rimane fra le scarpe, anche qui: a significare l’indefinibilità perenne ed irrisolta, felicemente urticante, d’una pratica d’arte, che non t’abbandona: interrogando. 
Ci sono autori che sono riconoscibili al buio, come Pascali, appunto, inutile dire poi di Morandi, Paolini, Capogrossi, o Vedova. Altri, pur subacquamente coerenti, ogni volta traggono invece le sorti infide di inganni, sorprese, mascherature e sterzate. Mattiacci è tra questi, ed il palcoscenico regale del Forte (che riverbera gli echi indelebili dei transitati fantasmi di Moore, di Beverly Peppers, di Paladino) gli permette ad ogni stanza, o ad ogni piattafoma scalata di guerresco bastione, di tramare le sue ferree sorprese corrusche. I suoi imprevedibili e sonori sobbalzi creativi, come il serpeggiante tubo giallo, che si snoda, rettile plastificato. 
Sobbalzi sonori: battiti sommersi del cuore di forgia e di ruggine. Perché le sue macchine solari, le sue carrette cosmiche, planate per concessione sulla groppa del nostro guardare, bronzei piatti planetari (rivolti, come trafitte palme oranti, verso l’ascolto planetario delle melodie aristoteliche di sfere celesti, inesorabilmente rotanti su se stesse) hanno come una muta risonanza segreta, eppur percussiva. Un riverbero di musicalità mentale ed immaginaria. Che s’accorda col rumore qui sopra maravigliosamente zittito, del pulsare basso del mondo ingolfato. Anche quando i dorati piatti di grancassa, sollevati al cielo, come girasolici sonars, che s’ergono tenorili, per captare messaggi misteriosi dal cosmo svilito, lasciano razzolare a terra gl’umanissimi latrati dei denutriti cani rabbiosi, registrati in uno slum neworkese. Realtà incancellabile, deportata nel lager gentile del Museo. Colpo di Gong infallibile: perfezione tattile, centrata, come nel felice titolo scelto dal curatore Risaliti. Incinto totem rotondo. Mentre una calamita solleva un abituccio impiccato di trucioli ferrosi, deridendo ogni gravità. Tra brunite macchine ariostesche e lunatici planetari di graffite, che più che al conterraneo Leopardi, fan pensare all’angoscia euforica di Galileo, mentre snida la verità inconfessabile del nulla cosmico. Ma attraverso le traforate fessure vibra la cupola-rivale e ribalda di Brunelleschi.