il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2018
Battaglione 332° “cinema Usa”. Niente guerra, è propaganda
Cinema e guerra. E in mezzo una bandiera “a stelle bianche in un cielo turchino”. Era l’aprile del 1917 quando gli Stati Uniti rinunciarono alla neutralità per dichiarare guerra alla Germania. E anche l’Italia li vide arrivare: il 27 luglio 1918 i 3mila uomini del 332° battaglione di fanteria scesero da un treno alla stazione della veronese Villafranca.
“Erano splendidi, divise impeccabili, offrivano ogni ben di Dio ai nostri soldati” ricorda Fraccaroli in una cronaca contemporanea. Quel battaglione – che avrebbe incontrato il 1° agosto re Vittorio Emanuele III – doveva essere l’avanguardia di altri arrivi, ma la notizia era falsa giacché rimase il solo approdato nel Belpaese e aveva l’unico obiettivo di fare propaganda di guerra, in altre parole era un “propaganda regiment”, non avrebbe mai combattuto, era “cinema americano” con tanto di operatori a riprendere le “gesta”.
Materia ghiotta da cine-raccontare, l’evento è al centro del bellissimo Come vincere la guerra, documentario di montaggio di Roland Sejko, già David di Donatello per Anja – La nave e attuale direttore responsabile di redazione dell’Archivio Luce. Una carica che gli si cuce a pennello perché il regista albanese si conferma veramente uno dei poeti degli archivi, sapiente assemblatore e selezionatore di un passato che sa dialogare con lo spettatore contemporaneo. Il suo doc è fra i gioielli in prima mondiale in programma al 32° Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, in apertura stasera. Prodotto e distribuito ovviamente dall’Istituto Cinecittà-Luce, il film nasce su commissione del Comitato storico scientifico per gli anniversari di interesse nazionale istituito dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e chiaramente rientra fra le celebrazioni del centenario del primo conflitto mondiale. Attraverso la messa in montaggio (di Luca Onorati) di materiali rari o inediti raccolti da prestigiosi archivi (National Archives and Records Administration – Usa, Library of Congress – Usa, Archivio Storico Luce, Collezioni Museo Nazionale del Cinema di Torino, Imperial War Museum – Uk, Etablissement de Communication et de Production Audiovisuelle de la Défense – Francia) il film costruisce la seducente narrazione dell’ancor più seducente capacità comunicativa americana di promuovere l’esistente e ancor meglio il “non esistente”. Il documentario, infatti, non mette in mostra la guerra bensì un racconto sulla guerra che parte dal convincimento degli americani alla sua legittimità (impagabili le sequenze del trio Chaplin- Pickford-Fairbanks che aizzano la folla a “sentire” il patriottismo bellico, col New York Times a titolare “I divi di Hollywood spiegano alla folla come si fa a vincere la guerra”) e arriva alle messe in scena operate in Italia di cui sopra, passando per le geniali trovate di George E Creel, l’inventore della propaganda di guerra fatta di parate magniloquenti, divise luccicanti, carri armati tirati a specchio.
Il punto è che gli americani del primo Novecento “non erano addestrati alla guerra”, dichiarava lo stesso presidente Wilson e avevano paradossalmente più dimestichezza con l’immaginazione, con l’universo della finzione e dei racconti, preludio all’industria del Sogno (americano) sulla quale stavano già fondando la propria coscienza collettiva. L’impatto con l’Europa dei 2 milioni di soldati statunitensi – i “Doughboys” – fu uno choc, persino per quel mini reggimento propagandistico giunto in Italia. “Nessuno ha sofferto più dell’Italia in questa guerra”, osservava Merriam nel 1919 testimoniando un popolo piegato da un sacrificio atroce.
Gli “Yanks” avevano imparato che il mestiere della guerra moderna non era il cinema di Griffith (costretto a ricostruirla sui set perché ormai era tutto “fango e acciaio”) e si avviavano così a diventare i più attrezzati e temibili del mondo.