il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2018
Il primo reportage di Di Battista per il Fatto: Silicon Valley, i droni al posto dei rider
In Market Street, nel cuore di San Francisco, a pochi metri dal quartier generale di Twitter c’è il palazzo di Uber. Pensando a Uber, a molti verrà in mente un’app che, mettendo in contatto diretto passeggeri e autisti, offre un trasporto automobilistico privato spesso più economico di quello dei taxi.
Uber, in realtà, sta progettando molto altro. In quel palazzo un team di circa 50 persone sta sviluppando una piattaforma che è alla base del trasporto aereo su droni di persone e cose. Avete presente quei ragazzi, spesso sottopagati, che sfrecciano in bici nelle grandi città e portano cibo di ogni genere per soddisfare i desideri di chi, per una sera, ha scelto il divano? Ebbene, tra pochi anni, meno di quanto si possa immaginare, verranno affiancati da un oggetto volante. Sarà un drone a portarci a casa una pizza, un hamburger o una bottiglia di vino. E sarà sempre un drone, più grande, a trasportarci come un taxi collettivo. Nei primi anni sarà guidato da una persona: una scelta che verrà fatta esclusivamente per tranquillizzare i passeggeri, perché già oggi esistono software capaci di gestire il traffico di centinaia droni senza supporto umano. La piattaforma si chiama Uber Elevate e il designer che sta lavorando ai software è un ragazzo italiano di 28 anni. A San Diego, nel Sud della California, tra un paio d’anni verrà lanciato il progetto Uber Eats aereo. Niente ingorghi, niente semafori, nessun ragazzo sul pianerottolo di casa ad aspettare la mancia. Il delivery food verrà fatto dai droni. Già sanno trasportare e sganciare bombe, pensate che non riescano a portarci a casa un piatto di pasta prima che scuocia? Quanto all’Uber Air, il trasporto aereo di passeggeri, il progetto partirà a Los Angeles, Dallas e Dubai prima che mio figlio inizi le elementari. Uber è interessata a partnership con altre città, basta farsi avanti. Questa è la rotta di quel pezzo di mondo, quello che dispone di maggiori capitali. E non può essere invertita.
Una strana Disneyland tra uomini e robot
Pochi giorni fa, mentre visitavo Tesla, la più grande fabbrica di auto elettriche del pianeta, il Ceo Elon Musk annunciava il licenziamento del 9 per cento dei circa 37 mila impiegati. Usciranno dall’azienda con una cospicua buonuscita e con un pacchetto di azioni, ma avranno pur sempre perso il lavoro. Un’impresa rivoluzionaria, giudicata da Forbes nel 2015 l’azienda più innovativa del pianeta, costretta a licenziare i suoi dipendenti come una qualunque fabbrica che produce macchine col motore a scoppio. Basta fare un giro in Tesla per capire il perché. Come se fossi a Disneyland, un trenino mi ha trasportato nel futuro, o meglio nel presente. Al posto dei personaggi dei cartoni animati, c’erano operai e soprattutto robot. Lavoratori con in mano un avvitatore ne ho visti, ma non sembravano loro i protagonisti. In alcuni settori della fabbrica ho avuto l’impressione che gli esseri umani fossero a supporto delle macchine, non viceversa. “Quello è il robot più grande del mondo”, mi ha detto la guida. Era un enorme braccio meccanico rosso fuoco che afferrava la scocca di un un’auto facendola volteggiare in aria mentre altre macchine intervenivano su di essa. Gli operai? Spalle, figuranti. Musk ha spiegato che mandare a casa più di 3 mila lavoratori era una decisione sofferta, ma necessaria. Per quel che ho letto sul suo conto, tendo a credergli. I Ceo dei giganti high tech della Silicon Valley non si sono ammalati della febbre dell’accumulazione di denaro. Gli incredibili profitti delle loro aziende sono mezzi per continuare a creare. Senza miliardi di dollari da spendere in ricerca e sviluppo, le loro visioni non potrebbero concretizzarsi e il loro più grande obiettivo – incidere sulla storia dell’umanità – non si realizzerebbe. Questo si fa a San Francisco e dintorni: si immagina il futuro e lo si realizza. Tutto è nato qualche decennio fa da cervelli considerevoli, ma senza i fondi di venture capital e, soprattutto oggi, senza l’apporto di avvocati dalle parcelle infinite, capaci di dare i giusti consigli agli amministratori delegati delle aziende per pagare decine di miliardi di dollari di tasse in meno, la Silicon Valley sarebbe una valle desolata. E di desolazione ne ho vista tanta. Sono quelli che vivono al di fuori dell’high-tech a conoscerla meglio.
A Menlo Park, nella contea di San Mateo, c’è Facebook. Ed è un mondo a parte. All’ingresso centinaia di ragazzi si scattano foto mostrando il pollice davanti a un cartellone con il logo del “like”. Dentro, giovani ingegneri informatici lavorano in quello che sembra uno Stato nello Stato della California. Facebook non ha le dimensioni di Mirafiori o dell’Ilva, ma se uno Stato è un’entità politica costituita da un territorio la cui popolazione si è data un’organizzazione che comprende diritti e doveri, beh, Facebook è a tutti gli effetti uno Stato. Non ancora sovrano, ma forse è solo questione di tempo. In Facebook vengono garantiti ai dipendenti diritti che al 99 per cento degli americani sono preclusi. Gli stipendi sono eccezionali, i dipendenti vengono coccolati dall’azienda, non sia mai che decidano di andare a lavorare per Google. Facebook vanta un servizio interno di 50 linee di autobus che collegano la sede con tutta la Bay Area, l’area metropolitana che circonda la baia di San Francisco. Dalle 6 del mattino alle 8 di sera, 150 autobus portano gli impiegati da casa al lavoro e viceversa. Per le neo-mamme e i neo-papà sono previsti quattro mesi di congedo parentale a testa. I dipendenti hanno una delle migliori assicurazioni sanitarie d’America: copre ogni tipo di intervento, anche quelli per cambiare sesso. La loro mensa aziendale? Dodici ristoranti dove si mangia tutto ciò che si vuole. C’è l’indiano, il messicano, il texano, una pizzeria, un fast-food, un negozio di dolci e gelati. Chi lavora in Facebook può pasteggiare anche con amici e parenti, gratis per tutti. Ci sono distributori di bevande e snack, ma anche di cuffie o caricabatterie per il Mac. Tutto senza tirar fuori un dollaro. C’è la lavanderia, la palestra, il parrucchiere. Una sala giochi accoglie gli impiegati in pausa. Li trovi lì dentro con caffè o cupcakes in mano mentre si sfidano a Street fighter. Per l’azienda è fondamentale che i dipendenti non si lascino sottomettere da ansie e stress. Anche per questo in Facebook c’è un programma di aiuti psicologici per i lavoratori: dal Pc si può fissare un appuntamento con uno psicologo, magari dopo essersi tagliati i capelli, dopo aver portato a lavare le camicie, dopo essersi fatti grigliare una bistecca e dopo aver lavorato a un’applicazione ancora segreta, ma che presto verrà utilizzata da centinaia di milioni di persone. Il tutto dentro le mura dell’azienda. “You are not alone” è la scritta che compare ai dipendenti quando entrano nella pagina dedicata al programma di supporto psicologico.
Sarebbe bello se la stessa attenzione alla persona ci fosse anche al Tenderloin, uno dei quartieri più complicati di San Francisco. Negli uffici Facebook a Menlo Park ci sono circa 14 mila impiegati. Pochissimi, pensando all’incredibile fatturato dell’azienda. Molti di loro abitano a San Francisco, una delle città più care al mondo: per un monolocale difficilmente si paga meno di 2.500 dollari al mese. Per un appartamento con due stanze si arriva anche a 3.500, 4.000 dollari. Il cibo è costoso, ma i ristoranti sono pieni anche se, a frequentarli, i San Franciscans sono sempre meno. La città è in piena gentrification. Chi non lavora per l’high-tech non può più permettersi di vivere nella città in cui è nato. Ingegneri informatici di tutto il mondo strappano contratti da sogno in Silicon Valley e poi cercano casa sulle colline di San Francisco. Gli sfratti degli inquilini storici sono all’ordine del giorno: a molti conviene sbatter fuori di casa anche coloro che da vent’anni pagano l’affitto regolarmente e mettere un annuncio su Airbnb. La sharing economy, l’economia della condivisione, sta emarginando un mucchio di gente. Sono le contraddizioni dell’high-tech. E le contraddizioni a San Francisco sono di casa. Il Tenderloin è un quartiere a pochi isolati dal Financial Discrict, cuore pulsante del capitalismo californiano. È popolato da centinaia di derelitti: sdraiati in terra o intenti a trascinare sui marciapiedi i loro corpi compromessi dalla droga. Sono tanti gli homeless che raggiungono San Francisco. La polizia è tollerante e la temperatura della città sopportabile anche d’inverno. A questi si aggiungono gli sfrattati, che hanno perso tutto nel giro di pochi giorni e non sanno dove andare. Gli Stati Uniti sono un grande Paese da cui sarebbe opportuno importare molte cose. Da queste parti chi froda il fisco viene sbattuto in galera, mica ricevuto alla Casa Bianca. Ma se perdi il lavoro e non riesci a rimetterti in pista rapidamente, finisci ai margini. Questo anche in virtù della natura di molti americani, bombardati da pubblicità e promozioni di ogni tipo, tormentati dall’ansia dell’acquisto a ogni costo, in molti casi indebitati, spesso consumatori prima che cittadini. Chi ha un lavoro possiede una mezza dozzina di carte di credito. Il risparmio, tutelato e incoraggiato dalla Costituzione italiana, è visto come un ostacolo allo sviluppo della società americana. Se ti vanno male gli affari, la strada è la casa che ti aspetta. E la strada è la casa di molti.
Io la povertà l’ho vista in Congo, in Guatemala: quella del Tenderloin a San Francisco non è povertà, è miseria. A quei disgraziati non manca il cibo, ne trovano a tonnellate nel regno dello spreco. E poi ci sono mense gestite da associazioni di volontari. In una, insieme alla mia compagna, ho fatto volontariato anche io. Volevo parlare con quelle persone. Ci ho provato, ma non è stato semplice: più che una mensa, pareva un manicomio. Chi urlava, chi tremava, chi ripeteva cento volte la stessa frase, chi era ossessionato dalla posizione del panino che aveva davanti. Gli “ospiti” non parlavano tra loro, vittime dell’emarginazione, della droga che divora anche i denti, dell’incomunicabilità. Ho stretto amicizia con un ragazzo peruviano, Martin: era una settimana che mangiava in mensa perché era stato licenziato da poco. “Io non sono come questi pazzi qui, io ho sempre lavorato”. “Questi non hanno voglia di fare nulla e il bello è che le mie tasse gli servono a pagarsi la droga, io mi spacco la schiena e loro fumano il crack”. Una dose di crack costa meno di un pasto caldo nei fast-food e anche l’eroina è economica.
Ho girato il Tenderloin in lungo e in largo, qualche volta ho dovuto cambiare strada, ma non mi sono mai sentito in pericolo. Un tizio ha agitato la siringa davanti a me, ma lo faceva mentre si allontanava. Non ho preso quel suo gesto come una minaccia, ma come il tentativo di farsi notare, come a dire: “Esisto anch’io”. Il Comune di San Francisco ha molto denaro. Soltanto di property tax, l’imposta sulla casa, incassa centinaia di milioni all’anno. I proprietari pagano ogni anno circa l’1,2% del valore del loro immobile. Se hai una casa che vale 2 milioni di dollari – e a San Francisco è normale – paghi 24 mila dollari l’anno. Le risorse per i programmi sociali non mancano, in California. E i senzatetto possono accedere a molti servizi. C’è il programma food-stamp, una sorta di tessera ricaricabile con denaro da spendere esclusivamente per beni di prima necessità; ci sono sussidi, camere di hotel finanziate dal governo. Ma c’è anche molta disperazione e questa ti spinge o a non accettare aiuti o a utilizzarli per la droga. Nel Tenderloin c’è chi baratta i generi alimentari ottenuti grazie al governo con un po’ di metanfetamina. E c’è chi preferisce dormire in strada, pur avendo i dollari necessari per un tetto, per potersi fare ancor di più. Probabilmente solo una piccola parte degli emarginati del Tenderloin è vittima della disoccupazione tecnologica. Ma tutti sono martiri di quella forbice tra ricchezza e miseria che si sta allargando in tutto il mondo. A San Francisco l’indigenza incontra l’opulenza ogni giorno. A volte pare che l’una abbia bisogno dell’altra per sopravvivere.
Miseria e invidia sociale formano un cocktail micidiale
Tra un paio di mesi saremo in una comunità indigena guatemalteca. Una comunità senz’altro povera, ma sana, anche se non so ancora per quanto. È lì che voglio che mio figlio festeggi il suo primo compleanno. Lo voglio vedere circondato da bambini ai quali basta fare un giro nella selva o giocare con un pallone rattoppato per passare giornate memorabili. Quelle giornate che al Tenderloin non passano mai, anche per chi porta il pane a casa grazie a lavori umili e che viene travolto dall’insostenibile aumento del costo della vita provocato dalla bolla high-tech. La miseria va a braccetto con l’invidia sociale e il cocktail esplosivo spesso genera violenza. Se commessa contro qualcuno o contro se stessi, fa poca differenza. C’è chi guarda con invidia un altro essere umano che può permettersi un diverso tenore di vita e chi guarda con invidia una macchina perché certi ritmi lavorativi non li potrà raggiungere mai. L’automazione e la diffusione della robotica causano vittime, povertà e nevrosi. Non per la loro essenza, ma per l’assenza di politiche capaci di regolarle. Se vengono tassate le persone fisiche, non si vede perché non possano essere tassati anche i robot: tanto, fermarli davvero non si può, non sarebbe neppure giusto. La politica deve regolare l’economia, non viceversa. E dire la verità. La piena occupazione non esisterà mai più. Basta farsi un giro per la Silicon Valley per rendersene conto. Basta osservare i risultati già raggiunti dall’Intelligenza artificiale per definire ciarlatano chi promette milioni di nuovi posti di lavoro. Molti lavori stanno scomparendo, anche lavori umili, è già in atto un generale impoverimento delle classi più deboli. Il reddito universale è l’unica idea che potrà strappare gli esseri umani dal pericolo di una guerra sociale imminente.
L’alienazione che si respira per le strade del Tenderloin non colpisce soltanto i derelitti. Le macchine sono nate per liberare gli esseri umani dalla fatica del lavoro. Oggi, se la politica sarà in grado di governare i processi, i robot potranno accelerare quel processo di emancipazione che è nato con l’uomo. Anche senza piena occupazione, gli esseri umani potranno trovare attività alternative. In fondo di cosa abbiamo bisogno? Di salute psico-fisica, di tempo e di un reddito con cui vivere. Le macchine possono aiutarci per le prime due cose, la terza spetta alla politica. Il reddito universale non è assistenzialismo. È il futuro. Purché incoraggi chi lo riceve a dedicarsi ad attività socialmente utili, sconfiggendo il male del secolo – l’incomunicabilità – con la relazione umana: l’unica attività che nessuna macchina sarà mai in grado di compiere. Non soltanto tra gli ultimi del Tenderloin, ma anche nei quartieri alti. Come scrisse Eduardo Galeano, “ci sono uomini così poveri da avere soltanto i soldi”.