Corriere della Sera, 23 giugno 2018
«13», una serie per capire la fragile generazione dei Millennial
È passato un anno da quando Netflix ha rilasciato la prima stagione di «13» («13 reasons why»), il controverso teen drama basato sul romanzo di Jay Asher che affronta con un linguaggio crudo e coinvolgente temi forti come il bullismo, la depressione, la violenza sessuale nel mondo degli adolescenti. Il racconto si era chiuso con il disvelamento di diversi misteri sollevati dalle 13 cassette registrate da Anna Baker, ma molto restava da capire e Netflix ha giustamente deciso di investire in una seconda stagione, rilasciata il 18 maggio (nel frattempo la serie è diventata un fenomeno globale). Sono passati cinque mesi dalla tragica morte di Anna e la serie riprende dalle aule del liceo Liberty High, un microcosmo molto autoreferenziale che è il cuore di tutto il racconto, con i suoi rituali, le sue spietate relazioni di potere, la sua crudele «piramide» sociale di vincenti e perdenti. Non a caso i genitori della ragazza hanno deciso di intentare una causa contro il liceo come istituzione, accusato di non aver fatto abbastanza per prevenire il suicidio.
In termini di struttura, la seconda stagione appare a tratti meno compatta della prima, in cui la voce fuori campo di Anna serviva da collante narrativo (farla tornare come fantasma sembra una scelta confusa). È centrata sul processo al liceo e ogni episodio racconta la testimonianza di uno dei personaggi chiave: alcuni con responsabilità effettive nei confronti di Anna, altri solo «colpevoli» di averla ferita involontariamente mentre essi stessi lottavano contro le proprie debolezze.
Forse ancor più che nella prima stagione, «13» mette in scena in questi nuovi episodi un mondo angosciante, in cui si fatica a trovare redenzione e un barlume di speranza dal tormento interiore, come suggerisce lo sconvolgente colpo di scena finale. È una serie importante per capire la generazione fragile e potente dei Millennial, non solo negli Usa.