Corriere della Sera, 23 giugno 2018
La Chicago di Muti
CHICAGO La cronaca comincia assai prima della standing ovation con cui Riccardo Muti ha trionfalmente chiuso la stagione della «sua» Cso, Chicago Symphony Orchestra, 125 anni di storia. Omaggio all’anniversario di Rossini: assenti il Console e l’Istituto italiano di cultura.
Durante le prove, Muti coinvolge varie comunità, dai veterani di guerra ai giovani prigionieri del carcere minorile, che poi il maestro riceve in camerino offrendo loro un chinotto, parlando in modo semplice di Mozart, «che i viennesi non sanno nemmeno dov’è sepolto ma fanno un sacco di soldi con i cioccolatini che portano il suo nome, un genio che ha reso ricca una nazione, in vita ha sofferto molto». I ragazzi internati, con la maglietta gialla della prigione e la prima peluria sul volto, sono emozionati. Si alzano, la direttrice dice che è tempo di andare, escono in fila indiana senza sapere bene chi salutare. Un momento toccante.
Qui Trump non ha vinto, Chicago è in mano ai democratici. Ma l’America, Terra dell’accoglienza e di migranti, costruisce muri, come l’Europa. Alla Cso sedici archi sono asiatici, dieci sono donne. La politica divide: la musica unisce, e può contribuire a costruire un sentire comune, «noi possiamo portare un messaggio di coesione e raggiungere aeree lontane, penso ai concerti nei quartieri afro-americani. Le discordie nel mondo sono dovute alla caduta dei valori etici, spirituali e culturali. La politica cerca facili consensi, allo stesso modo vedo musicisti che vogliono colpire l’immaginazione con atteggiamenti teatrali. Tra poco celebro i miei 50 anni dal debutto al Maggio Fiorentino, avvenuto con Sviatoslav Richter, che negli ultimi anni voleva il buio intorno a lui, solo una luce sulla tastiera, perché niente distraesse dall’ascolto. Il contrario di ciò che succede oggi».
Chicago, la città dinamica dell’architettura e dei primi grattacieli. «Depardieu dice che New York ha un’energia malata; qui c’è un’energia sana». Chicago è gemellata con Milano: «Finora non ho visto nessun risultato concreto, l’unica cosa è che ci sono centinaia di i ricercatori e grandi talenti che hanno lasciato l’Italia per gli Stati Uniti».
Il maestro potrebbe fare da garante, da ponte…«Io ho speso tutta la vita a fare il “predicatore”, e non ha portato a nulla. Non sono un politico, non ho la chiave della soluzione, il sindaco di Milano verrà qui e spero possa creare punti culturali, scientifici, artistici e economici in comune. In fondo sono due città che si somigliano. Sono disponibile a dare una mano, ma non voglio essere la voce che grida nel deserto».
Quanto alle voci di un suo ritorno alla Scala per il concerto di Natale, risponde in modo deciso: «Non ci sarò». Però ha tre impegni italiani importanti, da luglio a novembre: il Macbeth a Firenze, il concerto a Norcia per i terremotati, il Così fan tutte a Napoli. Nel 2020 riporterà da noi in tour l’Orchestra di Chicago di cui è direttore musicale (dovrebbe esserci Milano), alla potenza di fuoco dei suoi leggendari ottoni ha aggiunto un maggiore equilibrio, «una cantabilità mediterranea».
Il programma spariglia ogni routine, un’onda anomala intensa e piena: lo Stabat Mater di Rossini, «ha il linguaggio di un operista, ma non significa che sia un’opera con testo sacro»; il Kyrie K 341 di Mozart, che non fa parte di una Messa; il Chant sur la mort de Joseph Haydn del suo amato Cherubini: «L’inizio evoca il Don Carlo di Verdi, poi l’assolo dei celli anticipa il finale del primo atto di Otello, e costruisce un pezzo a tratti metafisico nello stile di Haydn anche se l’atmosfera gagliarda ricorda la grandeur francese. Mi auguro che il presidente Mattarella accolga il mio appello a riportare le ossa di Cherubini da Parigi a Firenze, parlandone con Macron».
E dall’attuale governo italiano cosa si aspetta per la cultura? «Ancora non si è pronunciato, io tra poco compio 77 anni, per il futuro del Paese mi aspetto che aumentino le orchestre (negli Usa c’è la Lega che ne riunisce 800) e che si riaprano i teatri chiusi a decine. Siamo il Paese della musica, o non lo siamo più?».
Chicago 2019: dall’Aida, alla XIII Sinfonia di Shostakovich, per cui verrà la vedova Irina: «Mi dice che il marito amava la mia esecuzione del 1970, dove riuscimmo ad avere il microfilm della partitura proibita in Russia».
Sorride, il maestro. Hanno provato il concerto due volte di seguito, nessuna protesta, serenità, l’ultimo a lasciare la sala è il leggendario trombonista Jay Friedman, uomo di poche parole e tanta musica, un’istituzione a Chicago dove suona dagli Anni ’50 di Fritz Reiner. America, terra di contraddizioni. Ma come si lavora bene nella musica.