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 2018  giugno 23 Sabato calendario

Migranti, il divario economico che spinge a muoversi non si colmerà neanche tra 50 anni

C’è chi sceglie le offese e chi si tiene sul filo dell’ipocrisia. Chi parla poco per apparire inflessibile e chi non resiste alla tentazione di lanciarsi in lezioni. Forse solo il neo premier di Madrid Pedro Sánchez mantiene il sangue freddo, finora evitando di cadere nelle provocazioni. Ma nessuna differenza di stile è così marcata da camuffare il tratto che accomuna i leader europei oggi: stanno fallendo, tutti. Di fronte agli sbarchi dal Mediterraneo, ciascuno di loro è dominato dall’ansia di eludere il problema delocalizzandolo al Paese vicino. Finché quest’ultimo si rivolta, in un nuovo giro di ritorsioni.
Almeno in pubblico, i governi europei non si sono neppure avvicinati a una riflessione realistica sul problema com’è oggi e come sarà nei prossimi anni. Non lo fanno, perché dovrebbero trarne conclusioni opposte alla loro retorica: non hanno alcuna probabilità di governare questo fenomeno senza cooperare in buona fede fra loro; alla lunga, ne hanno poche di preservare per i loro stessi elettori la possibilità di viaggiare senza ostacoli nel resto dell’Unione europea, se continuano a illudersi di scaricare gli stranieri verso qualche Paese di là di un confine di montagna o di fiume.
Eppure un’occhiata ai redditi e alla demografia suggerisce il contrario. I migranti dall’Africa subsahariana hanno solo iniziato la loro grande spinta verso Nord. Lo ha scritto di recente Branko Milanovic della New York University, uno dei grandi studiosi mondiali delle diseguaglianze: lo scarto di reddito medio per abitante fra africani subsahariani e europei occidentali era di un dollaro a sette nel 1970 ed è oggi di uno a undici in «dollari internazionali». Significa che anche tenendo conto degli alimenti, degli abiti o della superficie abitabile in più che un dollaro può comprare in Gambia o Nigeria rispetto a Italia o Germania, noi europei in un anno guadagniamo in media undici volte di più. Dunque un giovane africano non si fa scoraggiare da una probabilità di meno del 2% di affogare al largo della Libia. Si chiede Milanovic: «Un olandese che guadagna 50 mila euro l’anno sarebbe indifferente alla possibilità di guadagnare mezzo milione in Nuova Zelanda?».
È sulla base di queste differenze che il Corriere cerca di mostrare la natura del problema in una proiezione (vedi grafico). Agli attuali tassi di crescita dell’economia dell’Europa occidentale (2%) e dell’Africa subsahariana (3,5), tra dieci anni noi europei guadagneremo in media dieci volte di più, tra trent’anni oltre sette volte di più (come nel 1970) e tra mezzo secolo guadagneremo 5,5 volte di più. Solo fra 40 anni i subsahariani si avvicinano a una soglia di reddito medio alla quale stanno arrivando oggi centinaia di milioni di cinesi. In altri termini, di fronte alla speranza di moltiplicare per sette o per cinque il proprio reddito, nel prossimo mezzo secolo milioni di giovani continueranno a cercare l’Europa.
Anche perché la demografia non lascia dubbi. La popolazione a Sud del Maghreb e del Mashreq oggi è di un miliardo e 50 milioni di persone ed ha raggiunto un tasso di crescita record del 2,64% l’anno. Anche immaginando un rallentamento graduale delle nascite, sarà triplicata a 2,9 miliardi tra mezzo secolo. Durante questo periodo gli abitanti della Ue saranno rimasti mezzo miliardo: le proporzioni passano da un europeo ogni due subsahariani a uno ogni 6, e molto di più se si contano solo i giovani. Se poi l’Africa accelerasse a una crescita al 5% l’anno, nel 2048 il reddito pro-capite europeo sarebbe sempre di quasi cinque volte superiore. Questa è una spinta secolare di popolazione che non sparirà con un divieto d’attracco a Pozzallo, un muro di barche davanti alla Libia o un respingimento alla frontiera bavarese.
Non resta che governarlo, se non lo si può cancellare dalla mappa del mondo. Michael Clemens (Princeton e Iza) ha dimostrato che più aiuti all’Africa servono solo se mirano rigorosamente a creare lavoro per i giovani. Ma alla lunga sarà inevitabile fissare quote e settori di fabbisogno di manodopera in Europa, quindi concedere visti selezionando le persone nelle ambasciate Ue in Africa. Giovanni Peri dell’Università di California a Devis ha dimostrato, conti alla mano, che un immigrazione gestita così aumenta – non riduce – il reddito dei lavoratori locali.