Esce da una famiglia di sportivi: fondisti, giocatori di hockey.
Carolina Kostner, la pattinatrice, è sua nipote. I primi sci, documentati da una foto.
«Avevo due anni e nove mesi.
Gli sci sono il regalo del Natale 1977. I primi maestri sono stati i miei genitori. In casa sono cresciuta con i maschi, inevitabile che cercassi di essere come loro. Un maschiaccio. Il mio sogno era giocare in una squadra di hockey su ghiaccio. Sogno non realizzabile, allora era uno sport chiuso alle ragazze».
Dove servono aggressività e forse anche un po’di cattiveria. O no?
Lei risponde con un sorriso dolcissimo che contrasta con le parole. «Nel caso, stia tranquillo che ne ho».
Servono anche nello sci?
«Molto meno. Intanto, lo sci è sport individuale e non c’è contatto fisico con gli avversari.
Lo sci è la ricerca di un equilibrio tra pazzia e calma».
Bel concetto, ci torneremo sopra. Compatibilmente con il lavoro di madre, quali sport la spingono davanti alla tv?
«Le gare di Carolina, sci, hockey, biathlon».
È stato difficile salire tutti i gradini?
«No, è stato tutto molto facile. A 8 anni mi ero iscritta alla scuola di Ortisei e qualche numero dovevo già averlo, perché mi aggregarono a un gruppo di addestramento preagonistico e da lì, un passo alla volta, sono arrivata alla Nazionale. Mio allenatore, in tutti quegli anni, Carlo Mussner, pensi che oggi è l’allenatore di David, il maggiore dei miei figli, 12 anni».
Promette bene?
«Ci mette una passione incredibile ma questo non significa che diventerà un campione. La passione, non se ne può fare a meno. Anche per divertirsi con gli amici. Con Carlo c’è stata la prima , vera discussione della mia carriera».
Argomento?
«Lui diceva che sciavo a gambe troppo larghe, che dovevo tenere i piedi più stretti. Ci ho provato, ma finivo sempre fuori pista e non riuscivo più a vincere una gara. Finché un giorno Carlo ha detto: va bene, facciamo come vuoi tu. E ho ripreso a vincere».
C’è una morale?
«No, è probabile che tecnicamente Carlo avesse ragione ma io rendevo di più in una posizione imperfetta.
Tecnicamente, so di non essere stata uno schianto come Deborah Compagnoni. Io avevo il dono della scorrevolezza e andavo più veloce. Lei sì che tecnicamente era perfetta. Per me, più giovane di cinque anni, un idolo. Aveva un team tutto suo, vinceva molto, ma nei rapporti con noi non faceva la diva e per questo le volevamo un gran bene. E per la forza di volontà che le ha fatto superare gravi infortuni».
Lei ha avuto meno problemi, sotto questo profilo.
«Uno solo a Lake Louise, durante le prove di libera nel 2002. Mi si sono incrociati gli sci, bruttissima caduta nel tratto più veloce della pista e brutta commozione cerebrale. Ci ho messo un bel po’ a riprendermi, ma posso dire che, della mia generazione, sono stata una delle poche a ritrovarsi a fine carriera con ossa e tendini intatti».
In azzurro, con chi legava di più?
«Non sono molto espansiva. Mai avuto nemiche dichiarate o amiche del cuore. Legavo di più con le mie compagne di camera, come Barbara Merlin e Patrizia Bassi».
Quando ha vinto la prima gara?
«In prima elementare. La coppetta ce l’ho ancora».
Anche Stefania Belmondo m’ha detto che conserva la medaglia di cartone dorato della prima vittoria, in una gara di corsa.
«Per un bambino sono cose importanti, anche se lo sport è ancora un gioco. Per me i problemi sono arrivati dopo».
Quando?
«Fra i 13 e i 14 anni sono cresciuta di 12 centimetri, faticavo a coordinare i movimenti, mi sembrava di abitare il corpo di un’altra. È di questo periodo il tentativo di Mussner di cambiarmi il modo di sciare.
Allenava anche la testa, Carlo.
Questo è fondamentale: l’importanza della passione, la voglia di allenarsi, la perseveranza, la fiducia in se stessi, il non abbattersi, non cedere mai».
Quando gareggiava aveva un soprannome?
«Sì, dopo Lillehammer, avevo 18 anni e non mi piaceva: Puffo.
Perché ero rotondetta, la faccia paffuta e per giunta la divisa della Nazionale era color azzurro Puffo. Per fortuna dopo due anni sono diventata Isi, e basta».
Aveva un punto di riferimento, un idolo?
«Di Deborah ho detto. Mi piaceva un sacco Pirmin Zurbriggen: bel ragazzo biondo, occhi azzurri, c’entrava anche il fisico. E poi era forte in tutte le discipline».
Come vede le nuove leve, Goggia in particolare?
«Premettendo che oggi si usano altri materiali e molto è cambiato, a cominciare dalla preparazione atletica, e che io e Deborah possiamo definirci artigiane davanti all’ultima generazione, a me Goggia piace tantissimo per almeno due motivi. Il primo è che va forte in tutte le specialità, ed è cosa rara.
Il secondo è quel suo “o la va o la spacca”. Fin dal primo metro si capisce che corre per vincere, senza calcoli. È una tosta. Le auguro di cuore che non incappi nella maledizione del secondo anno, ossia le difficoltà nel ripetersi dopo una grande stagione».
Un argomento triste, adesso: 29 gennaio 1994, Garmisch-Partenkirchen, discesa libera. Per lei è la prima vittoria in Coppa del mondo, per Ulrike Maier la fine di tutto.
«È stata una giornata tragica, una vittoria senza gioia e la morte di una campionessa simpatica, a tutte le gare portava la sua bambina, era in tribuna anche quel giorno. Aveva 27 anni, Ulle».
Nei filmati il casco si rompe nell’impatto, e voi come protezione solo quello avete.
Questo ci riporta alla pazzia e alla calma.
«Questi sono pazzi, o pazze, lo pensano molti vedendo una discesa libera con altissimi picchi di velocità».
Lei ha un riscontro?
«In gara 132,8 all’ora. Ma in allenamento credo di aver raggiunto i 135. E garantisco che la pazzia deve fare capolino più nelle giornate d’allenamento che in quelle di gara. Sembra un paradosso, ma bisogna rischiare di più quando in palio non c’è nemmeno una medaglietta. Le vittorie si costruiscono in allenamento. La calma è quel che ti impedisce di esagerare, di rischiare troppo».
E la paura?
«È una compagna di viaggio, puoi saperlo o fare finta di dimenticartene. Non è tutta una discesa che fa paura, altrimenti si sceglierebbe un altro sport. Molti hanno paura delle curve, io l’avevo dei salti. La paura non esclude il coraggio, ma è più vicina alla responsabilità, al sapere cosa si rischia. E basta un attimo, un crostone di ghiaccio, un minimo avvallamento del terreno, e si vola, e si cade».
Lei ha smesso a 30 anni.
Troppo presto?
«Al momento giusto. Ho annunciato che ero incinta e alla chiusura dei Giochi torinesi mi sono presentata vestita da sposa».
Ricordo. Bell’idea.
«Perché?».
Perché in genere è lo sport che irrompe, verbo caro alla Gazzetta, nella vita. Quel giorno, era la vita che irrompeva nello sport. Mai pensato ad allenare?
«Sì, ma ho tre figli (Gabriel ha 10 anni) e già mi riempiono la giornata. Quando saranno più grandi, forse».
A quali medaglie è più affezionata?
«Molti privilegiano quelle olimpiche, io preferisco quelle di Coppa del Mondo. Un oro olimpico dice che sei stata la migliore di un giorno, importante finché si vuole, ma un giorno. Per me è più importante essere stata la migliore di una stagione».