Ora ecco affermarsi a Firenze, nello stesso quartiere della Bottega gassmaniana, il compimento del primo triennio de L’Oltrarno, corso di recitazione diretto da Pierfrancesco Favino, sensibile a una formazione moderna di nuove leve di attori. Fino al 28 al Teatro Goldoni si replica Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, con tutti gli attori iscritti, diretti da Serdar Bilis. «Io devo molto, tutto all’istruzione, al tirocinio che ho affrontato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica dall’89 al ’92, e in particolare ho appreso la disciplina dall’insegnamento di Mario Ferrero, mentre con Orazio Costa ho conosciuto la meravigliosa e a volte frustrante consapevolezza che a volte nel teatro ci sono solo domande e non risposte. Stando a sentire Costa per giornate intere, ho avuto coscienza di un mestiere non solo artistico ma anche sociale. Poi m’è stato indispensabile un corso di perfezionamento di Ronconi che più tardi ho seguito al Teatro di Roma, che mi valse l’esperienza in quattro suoi spettacoli, il Verso Peer Gynt, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, Davila Roa e I fratelli Karamazov».
Cosa l’ha spinta a migliorare ulteriormente gli strumenti d’attore che già aveva acquisito?
«Diciamo che ho iniziato a frequentare seminari estivi a San Miniato, a Montepulciano e a Montalcino, dove ho conosciuto Peter Clough, da me adesso coinvolto come docente di recitazione a L’Oltrarno.
Avevo approfondito molto bene l’uso contemporaneo della tradizione all’Accademia, ma mi mancava qualcosa. Tant’è che ho continuato a partecipare a ogni tipo di workshop, per passione sia teorica che pratica. D’altronde in Italia circolano poche pubblicazioni sulle tecniche della scena. Proprio in un’epoca di mutamenti forti».
Che mutamenti?
«Nel mondo stanno cambiando rapidamente varie realtà connesse alla recitazione. Si sono diffusi nuovi mezzi, si è affermato un altro pubblico, ha preso piede un inedito senso della meraviglia, dell’adesione, e le recenti conoscenze cambiano ciò in cui si è creduto, gli spettatori sono sempre meno innocenti. Tutto questo trasforma i termini della comunicazione, il linguaggio della nuova drammaturgia, lo spazio scenico, e richiede un rapporto diverso tra il lavoro e chi assiste, dotato di voglia di sentirsi più incluso nell’avvenimento».
Il teatro subisce l’influsso delle tecnologie?
«Indubbiamente. Soprattutto i giovani sono legati alle trasmissioni di sapere coi video, coi social, all’insegna dell’io-partecipo, io-faccio-parte-della-comunità. E quindi bisogna ricorrere diversamente all’allenamento vocale, e del corpo».
La vocazione a farsi tramite, a trasformarsi da attore esperto in attore-guida, quando le è venuta?
«Se è vero che a Firenze svolgo il ruolo di “preside” da quattro anni, tutto è cominciato dando vita a seminari in Sardegna alla Valigia dell’attore, tenendo corsi allo Ied di Milano per Silvio Soldini, finché un giorno Marco Giorgetti, ora direttore del Teatro della Toscana, mi propose la conduzione di questa scuola. Nicchiai, poi ho accettato convinto. Ho la libertà di chiamare docenti da tutto il mondo. Ora aspetto nuovi talenti candidati, alle selezioni per i prossimi corsi gratuiti».
Lei per vari film ha lavorato con registi esteri. Che differenza c’è tra la formazione nostra e quella internazionale?
«Per l’avvio è importante l’orientamento anglosassone, poi la cultura latina è fondamentale per lo sguardo poetico. La nostra capacità inventiva, l’ho sperimentato in altri Paesi, ci fa affrontare bene gli incidenti».
Lei com’è, come insegnante?
«Io mi metto piuttosto di lato, intervengo in casi particolari. Collaboro, sono affascinato dai ragazzi, un mondo che ascolto tantissimo. Costituiscono un mondo ignoto, spesso categorizzato in modo ingiusto. Lascio il campo a teatranti di altre culture. Ad esempio l’attuale regista, Serdar Bilis, è turco, vive tra Liverpool e il suo Paese, ha una propria compagnia».
A proposito di artisti stranieri, lei a Sanremo ha recitato Koltès, con la tensione e la solitudine di un extracomunitario, ne “La notte prima della foresta”…
«Volevo introdurre una canzone di Fossati che parlava di lavoro.
Sono contento che ora si sappia di più chi è Koltès. Il testo parla di un’estraneità più che di uno straniero, di un sentimento senza bandiera. Non è un monologo buonista, il personaggio è attraente e repulsivo. Direi, d’accordo con Gino Strada, che la cultura è un antidoto alla paura del diverso. E Koltès non c’entra granché con le divergenze di oggi sui migranti… Una cosa sicura è che io replicherò lo spettacolo da gennaio del 2019».
È nell’aria che lei torni a Sanremo?
«Davvero non lo so».
Nel cinema è alle prese con D’Artagnan, ora. «Certo. Ho appena iniziato a lavorare nel set dei Moschettieri del re di Giovanni Veronesi, con Valerio Mastandrea, Rocco Papaleo, Sergio Rubini. Una bellissima favola che si gira ai Castelli romani, in Basilicata e in Liguria. Poi a settembre prenderò parte al film di Marco Bellocchio su Buscetta».