Cinque anni dopo, Passino vuole ricominciare a scalare le montagne più alte del pianeta. Il 3 luglio sarà in Perù per una via molto impegnativa, primo step di un ciclo di ascensioni che includerà anche l’Himalaya.
Passino, dopo quel terribile incidente quando ha iniziato a ripensare alla montagna?
«In ospedale. Mi sono chiesto cosa volevo fare, se avevo ancora la giusta motivazione e che cos’era la montagna per me. Ce la stavo mettendo tutta per guarire, ma nessuno mi garantiva che sarei potuto tornare in montagna. I medici mi dissero anche di metterci una pietra sopra, ma ho tenuto duro. La montagna è dentro di me, è nel mio Dna. Così ho rivisto mentalmente le grandi pareti e gli alpinisti che mi hanno dato qualcosa di importante. Ho capito allora che volevo essere ancora un alpinista e coronare i miei sogni sulle vette più alte del mondo».
Come è riuscito a salvarsi?
«Non lo so. Io non ho fatto nulla. Non mi ricordo di aver combattuto. Mi sono trovato in ospedale e tutti si sono occupati di me. I medici dell’ospedale di Annecy mi hanno salvato. Il mio fisico robusto mi ha aiutato certamente, ha risposto bene alle terapie mentre ero in coma, in “attesa”, forse anche perché in quel periodo ero particolarmente allenato, ma è stata l’équipe dei dottori a prendere in mano la mia vita e a ridarmela: me l’hanno confermato anche mia moglie Francesca e i miei figli, che erano lì vicini a me mentre ero in rianimazione. La mia temperatura corporea aveva raggiunto i 24 gradi. Con una terapia di riscaldamento attraverso la circolazione extracorporea, effettuata molto lentamente per evitare uno shock termico, l’hanno riportata su parametri normali».
Che cosa prova quando ripensa a ciò che le è accaduto?
«È una domanda che mi mette in imbarazzo. Io sono una guida alpina e ho perso due clienti, è durissimo accettarlo. Penso sempre a loro due. In qualunque momento, in qualunque posto, so che è successo. Anche se tutti mi ripetono che non ho colpe. Oggi sono più pacato, più riflessivo, meno irruento. Per ricominciare, le prime uscite le ho fatte con i miei amici, le altre guide di Courmayeur. Siamo andati su vie molto impegnative dove c’erano grossi pericoli. Mi sono messo alla prova per capire se avevo la testa, se ero ancora in grado di comandare una cordata o se avevo paura».
L’esempio dei suoi maestri l’ha aiutata?
«Sono stati fondamentali. Stefano De Benedetti, sciatore estremo, mi ha insegnato a conoscere la montagna, ad apprezzarla e rispettarla. Patrick Gabarrou è la montagna. Ho imparato da lui tutte le manovre di corda speciali, a usare le piccozze, a proteggere le soste. E Christophe Profit, Erhard Loretan, Ueli Steck. Tutti mi hanno dato qualcosa».