La Stampa, 22 giugno 2018
Investimenti e il miracolo impossibile: alzare il Pil e tagliare il debito
L’intervento del Ministro Tria durante la discussione del Documento di Economia e Finanza è stato accolto da sollievo e plauso, soprattutto per l’enfasi data alla necessità di ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil. Mi spiace fare ancora una volta il guastafeste, ma quanto ha detto Tria non mi sembra poi così rassicurante. Vediamo perché.
Le priorità
Tutti, al governo e fuori, concordano su due priorità: aumentare la crescita, ancora troppo bassa in Italia e ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil, fonte di vulnerabilità per la nostra economia. Il problema è come farlo. Il contratto di governo propone una nuova strategia: un maggiore deficit (più spesa pubblica e tagli di tasse) darebbe una spinta al Pil, il primo obiettivo. L’aumento del Pil, attraverso maggiori entrate pubbliche e l’ormai mitico “effetto denominatore”, porterebbe anche a un calo del rapporto tra debito e Pil. La Tria-nomics non è molto differente, se non in un aspetto. L’espansione di bilancio rifletterebbe maggiori investimenti pubblici, non spesa corrente. E chi può essere contro gli investimenti pubblici? Gli investimenti pubblici hanno tanti vantaggi. Nelle parole di Tria: «Gli investimenti pubblici impattano positivamente e in maniera rilevante sulla domanda aggregata di breve termine, ma, soprattutto, sul potenziale dell’economia. Inoltre, in questa fase macroeconomica, è ragionevole assumere che gli investimenti abbiano un moltiplicatore particolarmente elevato che, indirettamente, ne finanzierebbe parte dei costi di bilancio, anche in ragione degli effetti positivi sugli investimenti privati». Ma non è finita qui: l’aumento del Pil stimolato dagli investimenti pubblici genererebbe anche le risorse per finanziare le «riforme strutturali» incluse nell’accordo di governo. Sempre nelle parole di Tria: «Sono riforme che riguardano, come è noto, il sistema fiscale (leggi flat tax), il sistema pensionistico (leggi controriforma Fornero), il sistema del welfare (leggi reddito di cittadinanza), sulle quali ampia informazione è stata data dal Presidente del Consiglio, in quest’Aula». E ancora «gli investimenti pubblici materiali e immateriali dovranno essere la chiave per ottenere quel di più di crescita che permetterà di conciliare l’attuazione del programma di riforme strutturali, annunciato dal governo, con un quadro di finanza pubblica coerente con l’obiettivo di diminuzione progressiva del rapporto debito-Pil, sul quale il governo si è impegnato». Capito? Gli investimenti pubblici consentirebbero alla fine di finanziare anche la parte corrente del contratto di governo.
L’esperienza dell’Fmi
Ora, io sono il primo a credere che gli investimenti pubblici siano talvolta essenziali per evitare spinte recessive. Nel 2008 quando ero capo del dipartimento di finanza pubblica dell’Fmi proposi insieme a Olivier Blanchard quella che diventò all’epoca una delle principali raccomandazioni del Fondo su come attenuare gli effetti della crisi globale: introdurre misure espansive nei principali Paesi pari a 2 punti percentuali di Pil, soprattutto attraverso investimenti pubblici. Il 2% del Pil, mica noccioline. Insomma, non sono certo un talebano fiscale.
Ma da qui a credere che gli investimenti pubblici abbiano un potere taumaturgico, il passo è lungo soprattutto per un Paese ad alto debito. Per un Paese ad alto debito aumentare il deficit, anche se per spese di investimenti, potrebbe non essere gradito da chi compra titoli di Stato. Diversi studi dimostrano che il rischio di crisi sul mercato dei titoli di stato dipende dal livello e dalla dinamica del rapporto tra debito pubblico totale e Pil. Non ne conosco uno che concluda che un aumento del rapporto tra debito e Pil sia accettato più benevolmente dai mercati se va a finanziare investimenti pubblici.Si dirà: ma no, il rapporto tra debito e Pil non aumenta, scende per via dell’effetto denominatore: se aumenta il Pil … Eh già. Peccato che non ci sia un Paese che sia riuscito a ridurre in modo stabile il rapporto tra debito pubblico e Pil facendo più deficit. Non ce n’è uno. E non è che nessuno ci abbia pensato: dove questo esperimento è stato tentato (come negli Usa negli anni ’80) è fallito: il debito è aumentato. Ma nelle intenzioni del governo si va oltre: la maggior spesa per investimenti non solo si autofinanzierebbe, non solo consentirebbe un calo del rapporto tra debito e Pil ma permetterebbe anche di finanziare le «riforme strutturali» (leggi promesse elettorali del governo). Mi sembra davvero troppo.
I dubbi dei mercati
Ma se i mercati si preoccupano per l’aumento del deficit e, diciamolo, del debito, i tassi di interesse aumentano e a questo punto il Pil potrebbe persino scendere, il contrario di quello che si vuole ottenere. E gli effetti sul lato dell’offerta? Gli investimenti pubblici non accrescerebbero la capacità produttiva del paese? Dipende dalla qualità degli investimenti pubblici e qui in passato non è che la nostra performance sia stata stellare. Prima della crisi del 2008-09 la nostra spesa per investimenti pubblici era di circa il 3% del Pil. La Germania stava a poco più del 2% del Pil: non è che noi avessimo infrastrutture tanto migliori di quelle tedesche. Ora la Germania spende sempre poco più del 2% del Pil. Noi siamo allo stesso livello. Siamo sicuri che sia utile spendere di più prima di aver imparato a spendere meglio? Insomma, a ben vedere, il discorso di Tria ha aggiunto rispetto a quanto già si sapeva (e cioè l’intenzione di fare maggior deficit per realizzare le promesse elettorali) una maggior spesa per investimenti pubblici. E molti di quelli che avevano sottolineato i rischi del realizzarsi di tali promesse si sono tranquillizzati. Mah, potenza delle parole.