il Giornale, 22 giugno 2018
Il futuro dell’alta moda passa dall’Africa
Sul finire degli anni Sessanta l’Africa ha ispirato guru della moda come Yves Saint Laurent, Paco Rabanne, Courrèges e Givenchy. A distanza di mezzo secolo il continente nero sta iniziando a camminare da solo nel mondo delle creazioni, fino ad arrivare a una condizione di concorrenza quasi paritaria con i brand europei e americani. E se una nigeriana, Amaka Osakwe, veste Michelle Obama, Rihanna e Beyonce significa che le gerarchie e gli equilibri geografici dello stile stanno cambiando in maniera repentina. Che il futuro della couture sia in Africa è opinione condivisibile. L’eleganza esibita è vissuta come esigenza e come forza: l’abito offre equilibri ai corpi, dona pienezza e coerenza, investe chi lo indossa di un potere d’azione e di emozione.
Tutto questo passa attraverso il lavoro di una nuova generazione creativa che rivendica la propria eredità e che ha superato da qualche tempo i confini continentali. A giudicare dalla diffusione delle insegne degli atelier a Dakar, Abuja, Yaoundé o Khartoum, e dai frequenti ammodernamenti a cui sono sottoposti gli abiti, la sartoria vive un momento di grande vitalità. Questa effervescenza sembra essere soprattutto il prodotto della passione e dell’abilità di chi non può in alcun modo permettersi di acquistare gli abiti dei grandi stilisti, pur condividendone abbondanti stille di talento.
Uno dei primi a portare in passerella una collezione «benedetta» da Madre Africa è stato Lamine Badian Kouyaté, meglio conosciuto col nome del suo marchio, Xuly Bet, che in wolof, idioma senegalese, significa «mantieni la mente aperta». La sua abilità è racchiusa nel riciclare i tessuti che trova nei mercati delle pulci e nel trasformarli in composizioni coloratissime. Kouyaté si ispira ai grandi couturier come Saint Laurent, unendo materiali e colori dell’Africa contemporanea, senza dimenticare influssi degli anni Settanta. Nessuno prima di lui aveva fatto tutto questo. Kouyaté ha aperto la strada e molti giovani creativi e ambiziosi si sono accodati, ispirandosi al maestro. Forse nomi come Hayati Chayehoi, Duro Olowu, Sakina Msa o Fadila Elgadi dicono poco alle nostre latitudini, ma stanno emergendo, e hanno già fatto la loro apparizione a Tokyo, Parigi, Londra, Rio de Janeiro e Dubai.
A sostenere la creatività del continente nero c’è soprattutto il Dakar Fashion Week (che si svolge dal 20 al 24 giugno), giunto quest’anno alla sua 16esima edizione. L’evento è stato creato dalla stella della moda mondiale, Adama Paris, e vede tutto il continente nero sfilare e sperimentare nuovi stili. Le sfilate hanno avuto come cornice Les Almadies, il quartiere elegante di Dakar, dove le ville di lusso della classe agiata senegalese si affacciano sulle spiagge private dell’Atlantico. L’intenso sviluppo urbanistico è strutturato attorno a bar, ristoranti, casinò e discoteche. Davvero il meglio per la vita notturna di una capitale africana tra le più versatili, e il posto ideale per proporre moda e lanciare nuove sfide ai brand mondiali. In uno di questi pub, alle sei del pomeriggio, quando la movida è ancora a distanza di sicurezza, arriva di solito la regina della moda senegalese, Adama Amanda Ndiay, meglio conosciuta come Adama Paris. È nata a Kinshasa, nell’ex Zaire, e oggi vive tra Dakar, Parigi e Montreal. Adama ha un entusiasmo contagioso. La sua visione per l’arte e per il futuro della moda africana sembra votato a un ottimismo senza confini. Parla con passione e realismo. «Fino a poco tempo fa alle nostre latitudini fashion era sinonimo di prostituzione. Non dimentichiamoci che il Senegal è musulmano e ho dovuto faticare per farmi accettare». Adama ha frequentato il college, ha conseguito un master in economia, ha lavorato in una banca francese. «Nel tempo ho avuto il coraggio di affrontare mio padre e fargli capire che la mia vita non si sarebbe consumata dietro a una scrivania». Sua nonna era una donna elegante, sua madre la moglie di un ambasciatore. «Amavo aiutarla a vestirsi in occasione di party o ricevimenti ufficiali. Girando per il mondo ho iniziato a conoscere un sacco di persone diverse che hanno ispirato il mio modo di concepire l’abbigliamento e lo stile. Il mio successo? Lavoro, lavoro e ancora lavoro». Adama non fa mistero di essere affascinata dalla moda italiana, e ammette con una certa sicurezza: «Apprezzo l’abilità dei vostri stilisti a rinnovarsi continuamente. Io credo che con l’Italia si potrà creare qualche collaborazione molto importante nel tempo. L’Africa ha ispirato i designer della moda italiana. Ora tocca a noi presentarci anche come partner. Dobbiamo uscire da un ghetto che ci siamo costruiti mentalmente con le nostre debolezze e con quell’assistenzialismo che sovente nasconde una mancanza di stimoli nel diventare padroni della propria vita».
A sostenere la creatività del continente nero c’è anche l’Africa Fashion Week di Londra. L’evento costituisce dal 2011 la più grande vetrina in Europa per la moda africana o Africa-inspired. L’edizione 2017 ha visto alternarsi otto sfilate collettive per un totale di 47 marchi in passerella, mentre sono state 43 le aziende che hanno animato la parte dell’esposizione stabile. Alla luce delle cifre emerse, l’obiettivo può dirsi raggiunto. Da un lato uno straordinario successo di pubblico con circa 7.450 visitatori, dall’altro un interesse mediatico degno di nota con 350 testate accreditate. Mentre si è innescato un vero e proprio boom sui social media, con 60mila follower su Facebook, 5mila su Twitter e il sito ufficiale che, dalla prima edizione, ha registrato 5 milioni di visite.