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Riccardo Muti: «La cucina italiana è una sinfonia classica»
Ha appena terminato di dirigere come al solito magistralmente l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini sul palco dell’Auditorium del Lingotto di Torino, quando Riccardo Muti, salutato da una standing ovation, si volta verso il pubblico e dice: «Dopo questa straordinaria sinfonia da I vespri siciliani di Verdi, non faremo nessun bis». La sala mormora in segno di disappunto. «Signori», replica il Maestro con la sua contagiosa simpatia, «voi volete il prosciutto, il salame e il formaggio. Eh no, non si può avere tutto». Non è casuale, a ben vedere, il richiamo ai sapori e ai cibi delle terre italiane da parte del direttore d’orchestra più famoso nel mondo, il quale è anche un ambasciatore del gusto e della cultura agroalimentare del nostro Paese. Della sua passione per la buona tavola e della musicalità dei cibi, abbiamo conversato a margine del concerto torinese e in una pausa del suo tour a Ravenna. Il prossimo 11 luglio Muti sarà premiato a Firenze per il 50esimo anniversario del suo debutto al Maggio Musicale Fiorentino, e per l’occasione dirigerà il Macbeth di Verdi in forma di concerto.
Maestro Muti, quali son i gusti della cucina che l’accompagnano fin dalla sua infanzia?
«Naturalmente essendo io nato a Napoli ma cresciuto in Puglia, benché mi consideri un apulo-campano, non posso che avere un legame più stretto con i sapori di Puglia. Terra magnifica e generosa di prodotti squisiti. Mi vengono in mente a tal proposito le parole dell’onorevole Imbriani, quando sul finire dell’Ottocento aprì il suo intervento in Parlamento reclamando la costruzione dell’acquedotto pugliese: “ Vengo dalla Puglia, terra sitibonda di acqua e di giustizia”. All’epoca si interloquiva così in politica. Oggi si urla e ci si prende a male parole».
Crede si siano persi anche i sapori di un tempo?
«A me pare di sì, è cambiato tutto. Ricordo quando ero bambino e arrivava il Natale. Non c’era bisogno di guardare il calendario. Le strade erano invase dal profumo incomparabile dei mandarini. Oggi tutto questo non c’è più: siamo nell’era della globalizzazione, i mandarini si vanno a prendere chissà dove e sono tutti uguali. Lo stesso potrei dire delle mele e delle zucchine. O dei pomodori, che raccoglievamo sotto il sole cocente e che avevano proprio l’odore e il gusto dei pomodori! Sono cose di cui sento molto la mancanza. Fortunatamente io ho comprato un piccolo pezzo di terreno nell’alta Murgia, sotto il Castel del Monte, il castello di Federico II».
Che cosa coltiva?
«Ho piantato degli ulivi tra i piccoli trulli. Lì ho lasciato che tutti i sapori e i profumi oramai millenari, rimasti intatti, rimangano così anche per le generazioni future. Quando Vendola era governatore della Puglia, lo invitai a vedere queste “casedde” e si complimentò per come avevo conservato la magia di questo posto, senza toccare assolutamente nulla. Mi fece sorridere il pensiero che, siccome nei dintorni si era saputo che avevo acquistato un appezzamento di terra, la gente immaginasse che io volessi aprire un agriturismo. Quando invece capirono che la mia intenzione era solo quella di preservare qualche ettaro di terreno nella loro entità vera, qualcuno commentò: ma forse il Maestro Muti è impazzito».
L’ulivo e l’olio sono simboli della cultura mediterranea. Come andrebbero valorizzati?
«La terra dell’ulivo è la terra benedetta. Credo che tutto il Mediterraneo lo sia, è un bacino della cultura. Bisognerebbe tornare a glorificare il mondo dell’ulivo, dell’albero d’ulivo, che è l’albero della pace, differenziandoci dal mondo dello strutto che si trova dall’altra parte delle Alpi».
Da piccolo, quando si recava in visita a Napoli, sua città natale, che cosa mangiava?
«Indimenticabili restano i pranzi a casa di mia nonna a Chiaia. Non mancavano mai le melanzane preparate alla napoletana, la cosiddetta Parmigiana di melanzane. La bisnonna di mia madre era una marchesa che veniva da Grenoble, perciò a tavola mangiavamo con tovaglie, tovaglioli, forchette e coltelli con lo stemma del marchesato. La cosa mi ha sempre divertito. Da una parte la Puglia sitibonda di acqua e di giustizia, dall’altra parte il marchesato di Grenoble, era una specie di pasticcio strano, ma evidentemente qualcosa di buono ha portato questa combinazione, non solo a me ma anche ai miei fratelli».
Lei abita a Ravenna. Le piace la cucina romagnola?
«È fantastica. A cominciare dalla famosa piadina calda accompagnata dal vino Sangiovese, e poi i cappelletti, le tagliatelle, tutte specialità deliziose del territorio. Purtroppo, onestamente, con la professione che faccio se io dovessi abbondare in questo senso, probabilmente cambierei i miei connotati fisici e avrei molta meno agilità sul podio, quindi è una cucina che va presa con una certa misura, un po’ come toccata e fuga. Ogni tanto, però, si può fare. Come dicevano i romani, “semel in anno licet insanire”. Una volta all’anno, è giusto, è lecito uscire fuori di strada, impazzire».
Esistono a suo giudizio delle connessioni tra la grande musica classica e il mondo dei sapori?
«Gioacchino Rossini è forse il testimone più famoso di questo connubio, anche in senso comico. Mentre ascoltava Wagner, che Rossini non digeriva moltissimo, si allontanava ogni tanto dall’esecuzione con la scusa di andare a girare e ad oleare la carne che era sul fuoco. Anche Giuseppe Verdi, per esempio, ha sempre avuto un particolare interesse per la cucina. Non conosco il dettaglio, ma ci sono diversi volumi che indagano le sue passioni culinarie».
Il cibo fa parte della cultura italiana?
«Certamente, perché il cibo è un elemento culturale. Non parlo di quello che vediamo in televisione, di tutti questi chef che si avvicendano davanti alle telecamere. Qualche cuoco in meno e qualche concerto in più in tv non sarebbe male per il pubblico e per la popolazione italiana. Di cibo spirituale abbiamo tutti bisogno, anche se ovviamente la vera cucina fa parte della nostra grande tradizione. Aggiungo un’altra cosa: grazie ai nostri viaggi e concerti dei vari teatri italiani in giro per il mondo, soprattutto in Giappone, Corea e Cina, la scena enogastronomica si è completamente capovolta. Prima in questi luoghi dominava la cucina francese, considerata come la cucina d’élite, chic, invece con l’arrivo della musica di Verdi, di Rossini, e dei grandi teatri che hanno portato l’opera italiana in questi paesi, c’è stato un ribaltamento e oggi i ristoranti italiani sono più ricercati di quelli francesi».
Non le sembrerà allora strano che a Parigi, solo di recente, nei locali più alla moda abbiano inserito nei menu la burrata. Che cosa ne pensa?
«È un buon segno, peccato però che storpino spesso il nome. Solitamente lo scrivono buratta, con una erre e due t, ma il vero punto è che noi dobbiamo fare sapere che la burrata nasce ad Andria ed è un nostro prodotto. Perché la gente poi non lo sa e si fanno le imitazioni e i clienti si trovano nel piatto la burrata che viene dal Wisconsin o dal Massachusetts».
Lei è direttore musicale della Chicago Symphony Orchestra e spesso è via dall’Italia. A Napoli tornerà quest’autunno per dirigere “Così fan tutte” di Mozart, con la regia di sua figlia Chiara, che inaugura la stagione del San Carlo. La pizza napoletana è un’opera d’arte?
«Sono molto orgoglioso della nostra pizza, lo dico da napoletano. Il fatto, per esempio, che abbia ricevuto il riconoscimento dell’Unesco e che sia patrimonio dell’umanità mi riempie di soddisfazione. Da quanto ho capito la cosa ha un po’ irritato il presidente Macron, che sembra voglia mettercela tutta per ottenere lo stesso risultato per la baguette».