la Repubblica, 21 giugno 2018
Il desaparecido inviato a intervistare il ct Menotti
Mentre Maradona iniziava a cambiare la storia del fútbol, decine di ragazzi e ragazze poco più grandi di lui venivano sequestrati dalla dittatura di Videla. La Guerra Sporca che buona parte dell’Argentina anni ’70 preferisce non vedere.
Centinaia di Montoneros e semplici universitari finiti nell’agenda sbagliata. Tra questi Raul Cubas, tifoso del River Plate e fattorino di Abril, casa editrice italiana che pubblica le avventure di Hugo Pratt. Dopo un anno e mezzo alla Escuela de Mecanica de la Armada, due passi dal Monumental, tra interrogatori, torture e voli della morte, gli arriva un insolito ordine: intervistare il ct Cesar Luis Menotti e strappargli una dichiarazione a favore del regime, da sventolare in Europa, dove i movimenti per i diritti umani pregano Platini e Cruyff di boicottare il Mundial ’78.
Una missione in incognito per conto del nemico che sta sterminando la sua generazione. Un desaparecido che torna al mondo dei vivi camuffato da reporter e sorvegliato a vista dai suoi aguzzini, per incontrare un personaggio pubblico intoccabile e affiliato al Partito Comunista, al quale potrebbe rivelare chi è veramente e denunciare cosa sta succedendo all’ombra del Mundial.
A poco più di un mese dal debutto, Raul viene ripulito e accreditato per accedere al bunker della Selección. Con lui, il capitano Juan Carlos Rolón, dello squadrone responsabile dei 5000 desaparecidos della Esma. «Il tema del momento era la possibile convocazione di Maradona. Menotti non disse nulla. Finita la conferenza stampa mi avvicinai e gli chiesi un’intervista individuale, per una rivista della Cancelleria molto letta all’estero, gli dissi.
Lui era perplesso, ma accettò. Il militare in borghese che mi accompagnava, mi lasciò farla da solo. Avevo pensato di dirgli chi ero e da dove venissi, fare i nomi dei miei compagni della ESMA, ne sapevo a memoria almeno una trentina. Ho desistito, non sapevo come avrebbe reagito e come sarebbe finita, in fondo era un uomo vincolato a quella sinistra passiva di fronte al golpe. Era surreale. Evitai domande politiche e feci un reportage di fútbol. Avevo anche una famiglia da proteggere».
L’intervista venne pubblicata sulla rivista Confirmado, ma non esiste traccia negli archivi. Tra i numeri del 1978 manca quello che lo stesso Raul sfogliò tornato in prigione. Unica prova di quella missione assurda, una foto comparsa sul quotidiano La Nación: «Lo conservo ancora, un ritaglio del maggio del 1978 dove mi si vede in giacca, cravatta e baffi mentre ascolto Menotti. È la prova che sono stato lì.
Vedendo i fotografi mi ero avvicinato il più possibile, sperando di uscire sul giornale, perché a casa potessero sapere che ero vivo. Sopravvivevo giorno per giorno. I miei compravano La Nación, ma non si accorsero di me».
Il 25 giugno 1978 l’Argentina vinse la sua Coppa. A Raul fu concesso di seguire la finale a casa, quartiere Flores. «Durante il Mondiale, alla ESMA, era tremendo sentire i boati del Monumental, volevamo che l’Argentina vincesse anche se poteva favorire la dittatura.
Quando Kempes segnava, non potevamo non gridare. Mia madre racconta che dopo la finale uscii con la bandiera e mia nipote sulle spalle, verso l’Obelisco. Sono ricordi che non ho, forse li ho rimossi per il senso di colpa». Dopo la licenza, il ritorno alla ESMA. Poi la libertà. «Una strategia per terrorizzare chi era fuori». Nel gennaio 1979 Raul sbarcò a Caracas con la compagna conosciuta in prigionia. «Per colpa dei militari, durante l’esilio, mi sono perso il River di Francescoli» ride, con accento argentino contaminato da note caraibiche. «Anni fa ho provato a mettermi in contatto con Menotti, per reincontrarlo, ma non ne ha voluto sapere».