la Repubblica, 21 giugno 2018
General Electric, addio al Dow Jones dopo più di un secolo
General Electric viene espulsa dall’indice Dow Jones a cui apparteneva da 110 anni. Questo è l’atto finale di una lunga parabola di declino, il suggello che conferma il tramonto di un’icona. General Electric fu a lungo un simbolo del capitalismo americano, possederne le azioni era come investire in un “riassunto” dell’economia più ricca del mondo. Ora la cacciata dal celebre indice, che è conseguenza di una capitalizzazione insufficiente, rischia di prolungare la caduta delle quotazioni. Per molti investitori istituzionali, ma anche nelle consuetudini di tanti piccoli azionisti americani, un titolo che non appartiene a quell’indice diventa meno appetibile.
General Electric porta nel suo stesso nome il marchio di un’epoca: quel periodo tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento che vide un consolidamento di tanti settori industriali, con fusioni e acquisizioni che diedero nascita a colossi. L’aggettivo “generale” (come per General Motors, General Food) esibiva con orgoglio l’ambizione a dominare un intero settore. Nel caso della General Electric le produzioni spaziarono via via dalle lampadine agli elettrodomestici, alle turbine di centrali elettriche.
Fino ad arrivare, in tempi molto più recenti, all’energia nucleare o ai reattori per jet. I colossi come General Electric nacquero non a caso agli albori del taylorismo-fordismo, cioè della rivoluzione organizzativa fondata sulle produzioni di massa, la razionalizzazione del lavoro operaio, il controllo numerico, le economie di scala, infine sul versante degli sbocchi l’invenzione del marketing e del consumismo. Le dimensioni sempre più larghe, le integrazioni sia verticali sia orizzontali, sembravano offrire guadagni illimitati di produttività. Per molti decenni fu proprio così, la visione “scientifica” applicata all’industria rendeva il gigantismo un’idea vincente. Bisogna arrivare agli anni Ottanta del secolo scorso perché si affacci nel capitalismo un’idea diversa: non necessariamente l’ipertrofia dimensionale genera redditività, anzi i Moloch possono scimmiottare gli stessi difetti degli apparati pubblici, creare burocrazie dove si annidano sprechi e inefficienze. A quel punto esplode la moda delle scalate ostili che spesso prendono di mira giganti malati da triturare negli “spezzatini”, smembrare e rivendere a pezzi, per massimizzare i profitti. La reazione difensiva dei gruppi come GE allora li sposta ancor più verso l’idea di conglomerato: aggiungendo alla diversificazione dei prodotti anche la finanza. Fu così che General Electric – portando questa nuova moda all’estremo – si trasformò sempre di più nella “banca di se stessa”, con attività come la gestione di fondi pensione, o gli investimenti speculativi puri e semplici.
Un’evoluzione che sembrava inarrestabile fino alla crisi del 2008, che mandò in frantumi anche quel modello esponendone le fragilità. In parallelo con la finanziarizzazione, General Electric aveva inseguito l’altra patologia del capitalismo contemporaneo: lo star-system dei top manager, i chief executive trasformati in celebrity. Il caso più eclatante fu quello di Jack Welch, uno degli inventori-divulgatori del Nuovo Verbo: “la creazione di valore aggiunto”. Con Welch divenne normale associare in una triade perversa i tagli del personale, i rialzi di Borsa, e gli aumenti stratosferici degli stipendi per l’oligarchia dei dirigenti. Creazione di ricchezza, sì, ma solo per delle élite ristrette.
Spaventose diseguaglianze a danno di tutti gli altri. In fondo a questo percorso degenerativo ci stavano pure le avidità da Basso Impero, gli episodi di malcostume sotto il successore di Jack Welch, Jeff Immelt: il più famigerato rimane quello dell’“aereo di scorta”. Non bastava che Immelt viaggiasse su un jet privato anche per minuscoli spostamenti; un altro jet doveva seguirlo nel caso che il primo avesse un guasto. La barbarie dei top manager ha distrutto un patrimonio dell’industria americana, ma loro si godono “paracaduti d’oro” e ricche liquidazioni. Nel frattempo il vento era comunque girato a sfavore. Le produzioni di General Electric non sono più “glamour”, gli investitori stravedono solo per il digitale. Che già replica le stesse patologie.