la Repubblica, 21 giugno 2018
Fondi sempre più attivi contro i superstipendi
Il calendario manda in archivio – oggi – la primavera, non calda per il meteo ma per l’intreccio tra elezioni politiche e fiducia degli investitori sull’Italia quotata. L’analisi dei dati della stagione assembleare appena chiusa a Piazza Affari mostra qualche sorpresa e la crescente pressione dei fondi istituzionali su chi guida e possiede le quotate. Costante è la presenza dei gestori nel capitale, malgrado i rivolgimenti politici; maggiore è il dissenso sulle politiche di remunerazione e sui piani di incentivazione, osteggiati in media da un azionista di minoranza su tre. Sono percentuali che manager e padroni dovrebbero studiarsi perché si tratta dei tipici campanelli d’allarme per la dialettica sociale, spesso forieri di incursioni aggressive come nel caso, fresco ma ormai di scuola, di Telecom Italia.
Intanto si sfata il mito delle «elezioni che tengono lontano chi investe». Alle assemblee di Piazza Affari quest’anno ha partecipato il 31,40% medio degli investitori istituzionali, più del 29,5% dell’anno scorso. È una dinamica simile a quella vista durante le elezioni politiche 2013: allora i fondi in assemblea furono il 20,4% del totale, contro un 19,8% dell’anno prima. Per giunta in entrambi i casi dall’urna non sono uscite maggioranze chiare, anzi fumi di incertezza. Tra un’elezione senza vincitori e l’altra i fondi hanno continuato a crescere nelle quotate nostrane, e i proprietari a calare: nel 2018 le minoranze hanno pesato per un 31,4% medio (29,4% l’anno prima), che si confronta con il 35,6% medio dei soci di riferimento (era il 36,2%).
Tanta possanza da parte del mercato si è dispiegata soprattutto nel dissenso alle politiche di remunerazione dei vertici, che per la prima volta superano il terzo degli investitori, mentre l’altro 65% delle minoranze ha votato a favore. Si tratta di una media del pollo però: in almeno nove blue chip oltre metà ha votato contro, con Ferragamo, Recordati, Pirelli, Poste, Unipol, UnipolSai maglie nere con oltre il 70% di contrari o astenuti. D’altro canto, società come Fineco, Prysmian, Unicredit, Intesa Sanpaolo hanno avuto il consenso dei nove decimi degli istituzionali.
In ogni caso – a parte per le banche – si tratta di voto consultivo: buono per fare pressione su manager e padroni. A guidare la tendenza sono stati i grandi consulenti distributori di “consigli per il voto” (proxy): l’anno scorso diffusero un 51,8% di raccomandazioni negative sulle politiche di remunerazione, quest’anno si è saliti al 54,3%. Altro tasto dolente sono i piani di incentivazione aziendali, su cui i consulenti hanno suggerito ai gestori di opporsi in oltre metà dei casi. E qui il voto è vincolante, anche perché per far approvare le azioni al servizio dei piani servono due terzi dei partecipanti all’assemblea. Se ne sono accorti i dirigenti di Moncler, dov’è saltata la delibera per l’aumento di capitale a supporto del piano azionario al 2020. Le criticità più frequenti sugli incentivi, dati alla mano, sono: scarsa trasparenza sugli obiettivi, tempistiche, facoltà di bonus discrezionali, buonuscite superiori a due annualità. «Nel 2018 gli investitori hanno intensificato ulteriormente il livello di attenzione determinando un più elevato livello di aspettative, specie sui compensi di vertice: e spesso un dissenso reiterato rappresenta un invito per altri tipi di investitori più aggressivi», nota Fabio Bianconi, consulente di Morrow Sodali. Entro giugno 2019 il governo Conte sarà chiamato a recepire la direttiva Ue 2017 sui diritti degli azionisti, che potrebbe trasformare in vincolante il voto d’assemblea sulle remunerazioni (in Italia lo è già solo per le banche) e introdurre un voto non vincolante sulla consuntivazione dei piani, quella parte che dettaglia i legami tra compensi e risultati.