È un numero altissimo, che apre uno squarcio sul lato più oscuro della sfida globale al terrorismo e mette in discussione la contabilità fornita dalla Casa Bianca di fronte alle richieste dei parlamentari Usa e delle associazioni per i diritti civili di tutto il mondo. Le autorità di Washington infatti non hanno mai presentato dati sulle incursioni dei droni in territorio libico. Ma gli attacchi lanciati in Libia durante la presidenza Obama sono superiori al totale dei raid scagliati nello stesso periodo in Pakistan, Yemen e Somalia. E, secondo le fonti interpellate da Repubblica, la quasi totalità di queste 550 missioni killer è stata realizzata usando la base italiana di Sigonella.
Obiettivo Gheddafi
Proprio nell’installazione siciliana il 25 marzo 2011 è stato attivato il 324th Expeditionary Reconnaissance Squadron, un reparto dell’aviazione statunitense dotato di Predator, i primi velivoli da combattimento senza pilota. Tre settimane dopo, gli Usa hanno dato il via all’offensiva contro Gheddafi e per sei mesi i Predator hanno continuato a distruggere mezzi e postazioni del regime, aprendo la strada ai ribelli fino alla vittoria. Secondo il Pentagono i droni hanno condotto 145 attacchi durante questa operazione. Ma l’ex colonnello Gary Peppers, comandante del reparto di Sigonella impegnato all’epoca nella missione libica, dichiara a the Intercept che i raid furono ben 241. Con un primato bellico: « In quei sei mesi i nostri Predator hanno lanciato 243 missili Hellfire: un quinto di tutti quelli usati nei quattordici anni di impiego di quest’arma » . Per un altro ufficiale Usa, quello dei droni è stato “ un successo fenomenale”. Le incursioni sono partite da Sigonella: l’operazione Unified Protector infatti è stata condotta dalla Nato, dopo una risoluzione delle Nazioni Unite. Ma il personale americano presente nell’aeroporto siciliano li ha pilotati solo durante decolli e atterraggi: la fase d’attacco veniva diretta via satellite dalla base di Creech, nel deserto del Nevada.
La grande battaglia
Dopo la caduta di Gheddafi per circa un anno le missioni armate dei droni sulla Libia sono state interrotte. Solo il 15 settembre 2012, dopo l’assassinio dell’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi, sono ripresi i decolli da Sigonella, con alcune “eliminazioni mirate di terroristi”. Ma negli anni successivi la nuova guerra civile ha fatto peggiorare la situazione e favorito la nascita di una filiale dello Stato Islamico. Così nell’estate 2016, dopo una richiesta formale del governo di Tripoli, l’Amministrazione Obama ha deciso di scacciare l’Isis dalla città di Sirte, scatenando l’operazione Odyssey Lighting. Il contributo americano è stato affidato soprattutto ai droni più avanzati: i potenti Reaper, letteralmente “mietitore”. Lo stormo stanziato in Sicilia ha come simbolo proprio la “ triste mietitrice” che impugna la falce. Complessivamente gli Usa hanno lanciato 495 attacchi tra agosto e dicembre 2016, di questi — come ha spiegato il colonnello Case Cunningham, comandante del 432 Wing basato a Creech in Nevada — il 60 per cento sono stati opera dei Reaper. Si tratta quindi di circa 300 incursioni, durante le quali ciascun drone ha scagliato fino a sei ordigni. Il volume di fuoco dei bombardieri teleguidati è stato enorme: « Abbiamo sparato centinaia di missili Hellfire » , ha dichiarato uno dei piloti. La città di Sirte è stata definita “ zona attiva di ostilità”, abolendo le lunghe procedure per autorizzare i raid: «Non è stata un’eccezione che l’ordine di colpire venisse impartito anche un solo minuto dopo avere scoperto il bersaglio » , ha detto il colonnello Cunningham. Una battaglia senza quartiere, casa per casa: alla fine, tra le macerie di Sirte sarebbero stati contati i cadaveri di 900 miliziani del Califfato.
Prove di guerra futura
Quella campagna è stata un momento di svolta nella storia bellica mondiale: per la prima volta infatti i droni alati sono diventati i protagonisti assoluti dei combattimenti. « Nuove tattiche e modalità di attacco sono state sviluppate durante quest’operazione», ha raccontato il capitano Abrham, un pilota del 432th Wing. I Reaper si sono mossi in coppia, coordinandosi l’un l’altro in maniera semi- automatica, scagliando armi diverse e alternandosi negli assalti contro un singolo obiettivo: Sirte è stata il laboratorio degli sciami di guerrieri robotizzati destinati a dominare i campi di battaglia del futuro. Il generale Mark Nowland, vice capo di stato maggiore dell’aviazione Usa, ha descritto l’azione sincronizzata di due Reaper contro i cecchini dell’Isis appostati in diverse stanze di un edificio: è stata usata una testata termobarica, che li ha uccisi provocando un’onda d’urto potentissima.
Il ruolo dell’Italia
Le autorità Usa non hanno mai indicato da quale aeroporto provenissero i droni. Il colonnello Cunningham ha sottolineato che gli attacchi venivano guidati da equipaggi in Nevada, North Dakota e Tennessee. A quanto risulta a Repubblica, la quasi totalità dei Reaper è decollata da Sigonella. Ma gli accordi bilaterali tra Roma e Washington che regolano le azioni dei droni dal nostro Paese sono segreti. La senatrice Roberta Pinotti, ministra della Difesa dal 2014 allo scorso primo giugno, si è limitata a precisare a Repubblica: « Come ho dichiarato in Parlamento, il governo ha autorizzato di volta in volta le richieste americane di usare la base di Sigonella per compiere attacchi con droni contro obiettivi terroristici in Libia e per l’operazione del 2016 contro l’Isis a Sirte. Non sono mai stati segnalati danni collaterali né vittime civili » .
I vertici statunitensi dal 2011 in poi hanno ribadito che lo schieramento di Predator e Reaper contribuiva a limitare i “ danni collaterali”, perché i droni possono colpire con “precisione chirurgica”. Non è mai stato provato che i raid americani abbiano causato la morte di civili. Un dossier diffuso ieri dal centro di monitoraggio inglese Airwars e dal think tank New America sostiene che i bombardamenti in Libia dal 2012 abbiano provocato tra 244 e 398 vittime civili ma questo studio prende in considerazione 2.180 attacchi aerei, condotti dagli stormi Usa, francesi, egiziani, emiratini e dei due governi libici. In merito alle incursioni americane, senza distinguere tra droni e velivoli con pilota, lo studio ritiene che possano avere ucciso da un minimo di dieci a un massimo di venti civili. Anche se una serie di elementi raccolti durante la battaglia di Sirte porta a sospettare che altri 54 “non combattenti” abbiano perso la vita sotto le bombe. Tutte informazioni rimaste prive di riscontri.
L’ultima ondata
Dopo la caduta di Sirte le missioni libiche dei droni sono proseguite. Nella notte del 19 gennaio 2017, poche ore prima che Barack Obama lasciasse la Casa Bianca, due giganteschi bombardieri stealth B-2 hanno devastato un accampamento dell’Isis con 85 ordigni: chi cercava di fuggire è stato eliminato da una coppia di Reaper. Con l’arrivo di Donald Trump la strategia non è cambiata ma le attività sulla Libia sono diventate ancora più misteriose. Per non urtare “le sensibilità diplomatiche”, il Pentagono ha diffuso sempre meno notizie sulle incursioni. Un alto ufficiale ha citato 18 attacchi, mentre Africom — il comando Usa per l’Africa — ne ha riconosciuti solo 11 in cui però sono stati abbattuti più obiettivi. Lo scorso 6 giugno è stata distrutta una camionetta con 4 persone a bordo. Secondo una fondazione libica, solo uno era un miliziano: una ricostruzione smentita dagli americani. Infine il 13 giugno è stato ammazzato un capo di Al Qaeda.
Insomma, i raid non si fermano. Ma come è accaduto in Yemen, in Pakistan o in Somalia, le missioni dei droni non contribuiscono a stabilizzare la situazione, né a sconfiggere il terrorismo: anche in Libia, nonostante 550 attacchi di Predator e Reaper, il caos continua a crescere e nuove cellule fondamentaliste prendono le armi.