il Giornale, 21 giugno 2018
La banalità ad alta quota. I romanzi di montagna da gettare nel crepaccio
Il fenomeno dell’erosione delle coste in Italia, purtroppo sempre più drammatico, è spesso oggetto di un dibattito che dai geologi si è spostato all’opinione pubblica. C’è però un fenomeno altrettanto inquietante: l’erosione delle montagne. No, non lo sciogliersi dei ghiacciai o la neve in agosto a 800 metri. Il fenomeno erosivo di cui vogliamo parlare è quello, altrettanto drammatico, dei romanzi ambientati in montagna. Dopo la vittoria del Premio Strega 2017 delle Otto montagne (Einaudi) di Paolo Cognetti saranno usciti almeno 200 libri ambientati tra Dolomiti, Sud Tirolo, Valle d’Aosta, Val di Susa, Val Venosta. Una vera valanga di libri che non sempre volano ad alta quota. Memoir, gialli, thriller, romanzi hanno invaso le librerie sperando di raggiungere le vette di Cognetti. Un Cognetti che, dunque, è colpevole due volte: non per aver venduto centinaia di migliaia di copie ed essere tradotto in 30 paesi, ma di aver scritto un libro banale, a quota studenti delle elementari. Cognetti è colpevole una seconda volta per aver dato il via a questa moda che per lo più si perde tra i crepacci dell’insulso.
Iniziamo proprio dal libro di Cognetti: la classica storia di formazione con il ragazzo di città e il ragazzo di montagna; storia rinsaldata dalla scoperta di valli, alpeggi, torrenti. Mentre tutta una generazione si riempiva di merendine sintetiche e Coca Cola, il vecchio bambino saggio Cognetti si inerpicava già su per i monti bevendo latte appena munto dalle stalle. Dopo una scalata in montagna, anziché gridare al padre: «Ho fame, tira fuori i panini dallo zaino», si ferma sulle cime innevate a pensare e pensare e pensare per trarre conclusioni che Mauro Corona avrà raggiunto a un anno, dopo la sua prima sbronza, quando già aveva la barba lunga, la bandana e al posto del biberon una birretta: «Da quassù sembra tutto piccolo, vero?». Il giovane Siddartha dei monti, con spirito d’iniziativa ed energia da nonno di Heidi, si lancia nell’impresa di costruire la baita, con l’aiuto gratuito del suo amico Bruno, muratore. Intanto Cognetti, per non perdere il lettore tra cazzuola e materiali idraulici, infila senza citarle perle di saggezza di Thoreau, Twain e soprattutto di Anacleto Verrecchia, autore di quel Diario dal Gran Paradiso edito anni fa da Fogola editore, che è un autentico capolavoro di formazione a vette altissime.
Basta dare un’occhiata in qualsiasi libreria, anche on line, per trovare i romanzi più incredibili. Qualche esempio. La montagna dimenticata di Giovanni Bianchi definito dall’autore in quarta di copertina: «un romanzo che è un labirinto di un interminabile midrash e un ring dove le diverse discipline contendono tra loro fino a sfinirsi reciprocamente». Chi riesce a capire cosa significa, ci scriva. Persino l’anniversario del ’68 è celebrato: da Enrico Camanni con il romanzo Verso un nuovo mattino. La montagna e il tramonto dell’utopia: come spiega lo scrittore, è il fallimento dei movimenti studenteschi in un paesino delle Alpi. Ci immaginiamo la scolaresca delle elementari del paesino tentare la rivoluzione maoista. Neanche per l’arte sembra esserci requie perché Maurizio Falduti De Rosa ci racconta Caravaggio e il segreto della montagna. Lasciamo a Vittorio Sgarbi la lettura. Anche la canzone italiana è flagellata: Albachiara di Vasco Rossi diventa Albarosa di Laura Pini, romanzo ambientato sul Monte Rosa. Alessia Piato che ha scritto Il piacere gay in montagna: «la storia di un giovane che va a festeggiare il suo compleanno con gli amici in uno chalet di montagna isolato. In questo particolare contesto, si verificherà un collegamento tra questi uomini». Lasciando alle montagne il piacere di vedere in cosa consista «il collegamento tra uomini» andiamo avanti in questa che più che un’arrampicata è la caduta in un crepaccio. Ci sono anche grandi successi come Fiori sopra l’inferno di Ilaria Tuti (Longanesi) tra i maggiori successi alla Fiera del Libro di Francoforte 2017: Fiori sopra l’inferno verrà pubblicato in Francia, Germania, Spagna e altri dieci Paesi. In Inghilterra sono già stati acquistati i diritti mondiali per le traduzioni in lingua inglese. Ambientato a Gemona, tra le montagne del Friuli, è un thriller incensato dai critici e da scrittori come Donato Carrisi per l’originalità di trama e di stile. Inizia così: «C’era una leggenda che gravava in quel posto. Una di quelle che si appiccicano addosso ai luoghi come un odore persistente. Si diceva che in autunno inoltrato, prima che le piogge si tramutassero in neve, il lago alpino esalasse respiri sinistri». Un lago che «esala respiri sinistri»? Come fa un lago a esalare? E poi «respiri sinistri»? Basta questo incipit perché il lettore esali l’ultimo respiro.
Leggo ovunque recensioni entusiaste a La manutenzione dei sensi di Franco Fagiani (Fazi): la storia di un padre e di un figlio che soffre della sindrome di Asperger ambientato nella Alpi piemontesi. Poi a libro iniziato mi imbatto nella prima di molte frasi da Sudoku: «Io non ero suo padre, lui non era mio figlio». Cosa significa? È quasi più incomprensibile del Nicola Lagioia de La ferocia (Einaudi, Premio Strega 2016) quando scrive: «Aveva più di trent’anni ma sicuramente meno di venticinque». Sono anni che questa frase mi ossessiona e il rebus non l’ho ancora risolto.
Mi affido allora speranzoso alla lettura di Resto qui di Marco Balzano, tra i finalisti del Premio Strega 2018 e indicato da molti come probabile vincitore. Inizio la lettura anche invogliato da ciò che leggo sul sito di Einaudi: «Marco Balzano ha la sapienza dei grandi narratori: accorda la scrittura al respiro dei suoi personaggi. Inizio la lettura e m’imbatto in «guardandoti di sghimbescio», che non mi sembra una grande accordatura, ma un peccato (veniale per un esordiente, mortale per «un grande narratore»). Vado avanti e la protagonista dice: «Se devo immaginare di fare l’amore meglio una donna. Meglio zigomi duri di una ragazza che la pelle spinosa di un uomo». Pelle spinosa? Zigomi duri? Meglio continuare. «Poi un giorno di novembre si è presentato con uno sbrego enorme sulla mandibola, una ferita che gli attraversava il collo e scendeva sotto la camicia. Sembrava che qualcuno avesse tentato di dividergli la testa come un cocomero. Qualcosa non torna: «dividergli la testa come un cocomero»? Ma Balzano non era un grande narratore? Leggo poi che «Maria prendeva continuamente la febbre». Ma quando abbiamo la febbre tutti diciamo «ho la febbre», non «ho preso la febbre», a meno che non sia influenza o la malaria. E la malaria in Val Venosta, dove è ambientato il romanzo, sembra un caso difficile. Continuo portando fede e leggo: «Una nebbia gelida galleggiava nell’aria». Come fa la nebbia a galleggiare? Inizio ad avvertire le prime vertigini. Come Gaber mi sento spaesato «lontano dall’acciaio e dal cemento». Balzano, finalmente ci salva con un aforisma davvero originale: «E dalla vecchiaia non c’è che aspettarsi mai niente di buono». Secoli di saggezza degli anziani buttati nel crepaccio dei nuovi narratori di montagna.
Aveva ragione Goethe quando in Massime e riflessioni già nel 1833 aveva intuito l’erosione editoriale delle montagne: «I monti sono maestri muti, essi fanno ammutolire l’osservatore, e il meglio che si impara da loro non si può comunicare».