Avvenire, 20 giugno 2018
Intervista alla poetessa Armantrout: «Vi spiego i miei versi liberi»
Tre sono le tappe essenziali per chi voglia conoscere gli orientamenti della lirica statunitense d’oggi: Los Angeles, San Francisco e New York. L’on the roadal contrario – il viaggio da ovest a est – è stato proposto qualche anno fa dagli Oscar Mondadori in compagnia di due poeti, Luigi Ballerini e Paul Vangelisti, curatori dei tre volumi sulla nuova poesia americana. La prima di queste antologie comprendeva i tratti salienti dell’opera di un’autrice «nata per correre» in quella grande opzione poetica chiamata Nuestra Señora de Los Angeles:
Rae Armantrout, Pulitzer nel 2010, per decenni cattedratica di Poesia all’Università di San Diego. Californiana doc, esponente di spicco del gruppo dei “Language poets” – forse l’esempio più netto in America di postmodernismo poetico –, Armantrout intende la letteratura come il crocevia o, propriamente, il crossroad delle esperienze umane. Ha scritto, infatti: «Penso che la mia poesia contenga un uguale contrappeso di asserzione e dubbio». Con un’immagine senz’altro elegiaca, ha anche definito la sua una «poetica del Cheshire, che punta su due vie, poi svanisce nella confusione di ciò che è visto e ciò che vede».
Mrs Armantrout, ci parli dei “Language poets”.
«I “Language poets” hanno sviluppato un’estetica più o meno condivisa da giovani scrittori della Bay Area e, separatamente, di New York tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. A proposito, non ci siamo nemmeno autodefiniti “Language poets”. Questo termine fu usato per la prima volta da un critico della rivista “Poetry Flash”. Ma è innegabile che avevamo in comune l’interesse a esaminare in profondità la lingua che ci circondava, invece di utilizzarla come mezzo più o meno neutrale. Ciò probabilmente è dovuto al fatto che siamo diventati maggiorenni durante la guerra del Vietnam e siamo stati molto consapevoli delle distorsioni causate dalla guerra nel discorso dei media – quello che ora viene chiamatospin. Eravamo interessati, inoltre, ai vari modi in cui la parte può riguardare il tutto in una poesia. Con questo intendo dire che volevamo conferire alle unità sintattiche di una lirica – frasi, spezzoni o strofe – una qualche autonomia, in modo che ogni unità potesse avere varie relazioni con il corpo poetico e ci fosse una sorta di libera circolazione in esso. Siamo stati influenzati dai modernisti e postmodernisti americani come Gertrude Stein, Louis Zukofsky, George Oppen, Lorine Niedecker, Charles Olson, Jack Spicer, Robert Duncan, Frank O’Hara. In dieci volumi, intitolati The Grand Piano, dieci autori della costa occidentale hanno scritto sui primi tempi della Language Poetry. Ormai abbiamo preso strade diverse, naturalmente, ma siamo ancora tutti condizionati da quel periodo di formazione».
Quali sono le differenze, se ce ne sono, tra la poesia della West Coast e la poesia della East Coast?
«Se intende la poesia della costa occidentale e orientale in generale, è un argomento vasto. Gli scrittori della costa orientale sono più vicini a fonti di autorità, tradizione e, naturalmente, denaro. Sono più vicini alle grandi case editrici di New York, alle istituzioni come l’Accademy of American Poetry o alla Poetry Society of America e alle cosiddette università della Ivy League, come Harvard. Questo concede loro un vantaggio tattico nel pubblicare, distribuire e vendere i propri libri. D’altra parte, è verosimilmente credibile che la poesia della costa occidentale sia più libera, più selvaggia perché non indugia tanto all’ombra del passato. È almeno ciò che credevano poeti come Jack Spicer e Robert Duncan. Internet ci ha avvicinati tutti naturalmente, ma alcune differenze persistono».
Nella sua autobiografia si descrive come una ragazza che ha sopportato un’«infanzia insulare». Cosa intende?
«La mia infanzia è stata un po’ isolata e monotona. La mia famiglia era molto piccola – soltanto mia madre, mio padre e una nonna. Ero figlia unica. Vivevamo in un modesto sobborgo lontano dal centro della città e lontano da qualsiasi evento culturalmente stimolante. I miei genitori avevano pochi amici. L’unica cosa che mi salvò dall’isolamento totale fu il vivo interesse per la lettura. All’inizio mia madre mi diede dei libri e più tardi andai in una biblioteca...».
Secondo il critico Stephen Burt, William Carlos Williams ed Emily Dickinson sono i suoi maestri. È vero? E fino a che punto?
«Ho letto un’antologia della poesia americana quando avevo circa quindici anni e mi sono innamorata della Dickinson e di Williams. Fu da quest’ultimo che imparai veramente il cosiddetto «verso libero», cioè una poesia senza rima e metro. I testi di Williams hanno molta musica senza dipendere per questo dal ritmo di una filastrocca. Sono stata anche colpita dal modo in cui poteva creare suspense o duplice significato con i suoi “salti” in enjambement. Prima di leggerlo ero avvezza solo alla lirica più antica e più tradizionale. L’antologia includeva anche T.S. Eliot, Ezra Pound, Marianne Moore, ecc. Ma ho imitato Williams nei miei primi tentativi di versi liberi. Della Dickinson non era tanto la forma che ammiravo, quanto il pensiero audace e le sorprendenti scelte lessicali. La capacità, cioè, di riuscire a legare vocaboli probabilmente mai messi insieme prima...».
Nella sua poesia si nota l’esperienza del locale e del domestico. Come si adatta tale esperienza alla complessa società americana?
«Uno o due critici hanno detto qualcosa del genere sul mio lavoro negli anni ’90. Allora avevo un figlio a casa e così le immagini della vita domestica entravano più spesso nelle mie poesie. Ma in realtà qualunque cosa mi capiti di osservare, qualunque cosa io veda, senta o legga, entra nel mio lavoro. Penso che la prospettiva che hai citato qui non sia del tutto aggiornata. Ad esempio, il mio lavoro pubblicato più di recente,Entanglements, è un chapbook composto da poesie in conversazione con la fisica. Sono stata a lungo interessata alle scienze, che sono entrate naturalmente nella mia scrittura. Sono anche stata impegnata con la politica per decenni. Il mio libro Money Shot, pubblicato nel 2011, è stato scritto in risposta alla cosiddetta “crisi finanziaria”. In verità, mi piace mescolare materiale proveniente da regni diversi in modo che le frasi relative all’economia, la vita e la scienza si riuniscano in un unico, lungo poema».
Da cosa dipende la sua tendenza a scrivere poesie epigrammatiche?
«Mi piace scrivere in modo conciso e condensato. Mi piacciono le dichiarazioni audaci – e il lavoro della Dickinson ne è pieno. Non penso che tutto ciò che scrivo sia “vero”. Spesso le mie affermazioni sono esperimenti riflessi: e se fosse così?... Mi piacciono le dichiarazioni e le poesie che ti lasciano pensare».
La California. Quanto il luogo può influire nella stesura di un testo poetico?
«Ho trascorso quasi tutta la mia vita in California, ma attualmente vivo nel nordovest del Pacifico, nei pressi di Seattle, per essere più vicina ai miei nipoti. Il clima e la vegetazione sono molto diversi qui e, ovviamente, tali caratteristiche stanno iniziando a manifestarsi nelle mie poesie. Sarò sempre una californiana, però. Ho vissuto nella Bay Area, ma ho passato la maggior parte del tempo nel sud della California. San Diego è la versione più piccola di Los Angeles, a circa 150 miglia a sud di quest’ultima, quasi al confine con il Messico. Ho visto un gran numero di ispanici crescere e visitare spesso il Messico. San Diego ha una grande base navale e, in effetti, mio padre era in marina. Quindi è una città militare, una città di mare, una città di confine, una città con molti spazi aperti e molte autostrade. È complicata... E ci sono due grandi università lì. Ho insegnato in una di esse. Come ho detto, tutto ciò che sperimento entra nel mio lavoro, quindi ci sono molti alberi di eucalipto e buganvillee, autostrade e cartelloni pubblicitari nelle mie poesie. A parte questa evidente ascendenza, non sono sicura di come la California mi abbia influenzato. Voglio dire, è il luogo in cui ho incontrato i miei amici poeti. Chiedere come la California mi abbia influenzato è chiedere come l’oceano abbia influenzato il pesce che ci vive dentro».