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 2018  giugno 20 Mercoledì calendario

A proposito del suicidio di uno studente

Il dolore che provo a scrivere questo articolo non riuscirà a farsi parole. Non tutto. Neanche una minima parte. Perché è morto suicida uno studente, aveva 18 anni, era del mio paese natio. E io ho passato la vita a insegnare.
Qualunque cosa insegnassimo, da “Tanto gentile e tanto onesta pare” alla legge di Lavoisier, da Cesare al Führer, noi insegnanti insegnavamo sempre che la vita è importante, che vivere è un dovere indicibilmente esaltante. Ed ecco che un nostro figlio studente getta via la vita, con decisione, con meditazione, con ostinazione, buttandosi sotto un treno. Con maligna intelligenza: appostandosi accanto ai binari in corrispondenza di una curva, dove il treno doveva per forza rallentare, in modo da poter centellinare il suo gesto, calibrare bene il momento e la spinta.
Questo studente aveva solo 18 anni e noi siamo educati a pensare, e a far pensare, che quello è l’acme della vita, cioè, per usare il metro della civiltà dei consumi, della bellezza e dell’attrazione: a quell’età siamo tutti belli, amiamo e cerchiamo l’amore. È l’età in cui stiamo per uscire dalla scuola media superiore per entrare all’università. È l’età degli studi più difficili. L’esame di maturità, che corona quel grado di studi, resterà nel nostro inconscio come l’esame più difficile di tutta la nostra vita, anche quando avremo ottenuto la laurea.
Sogneremo quell’esame negli incubi della giovinezza. Non l’esame di Diritto Privato o di Anatomia, notoriamente i più massacranti fra tutte le facoltà, ma l’esame di maturità: secondo gli psicanalisti, perché nella vita ci sentiamo ciclicamente immaturi, e poiché gli psicanalisti sono in gran parte freudiani, la nostra immaturità è soprattutto sessuale. Quella dei 18 anni è l’età delle aspettative. Se uno si uccide a 18 anni vuol dire che aspettative non ne ha.
Insegnando per decenni, incontriamo tanti allievi così. Se uno si uccide, è un nostro allievo che si uccide.
Siamo chiamati in causa.
Ma qui c’è una ragione in più a interpellarmi, ed è che questo ragazzo si è ucciso in un paese dove ho trascorso l’infanzia e la giovinezza, dunque lui ha buttato via una vita che non era molto diversa dalla mia. Noi siamo alberi e il paese dove nasciamo è la terra dove affondiamo le radici, a succhiare gli alimenti per far crescere la nostra vita.
C’è una fraternità fra coloro che nascono e crescono nello stesso habitat.
La fraternità nell’habitat dove ho vissuto io e viveva questo ragazzo comporta che non diciamo ai genitori la nostra verità.
Ce la teniamo per noi.
Crescendo, siamo una montagnola di segreti. Questo ragazzo si è buttato sotto il treno, ma non ha lasciato neanche una riga per i famigliari.
Leonardo si chiama, nome immenso, immensamente impegnativo. La sua più grande passione era “sbandierare”, fare lo sbandieratore. Scagliava in alto, riafferrava, faceva ruotare le bandiere con una maestria che rivela una istintività. Questa è sapienza, perché è conoscenza di se stesso e del proprio corpo.
“Sbandierare” non è una materia scolastica, sabato mattina questo ragazzo ha ricevuto la notizia che era stato bocciato, e il giorno stesso si è ucciso. Non c’è proporzione fra un fatto e l’altro. Una vita vale immensamente più di una pagella, e la delusione dei genitori perché un figlio non è stato promosso non è niente in confronto alla disperazione perché il figlio è morto: Leonardo, tu dovevi capire che per i genitori eri tutto, che questo tutto vale più di ogni altra cosa. Se non capivi Newton era un piccolo buco nella tua cultura, ma se non capivi cos’eri per padre e madre questa era la falla per la quale potevi scivolare.
Chi si uccide a 18 anni si uccide alla cieca. Non sa quello che fa.