La Stampa, 20 giugno 2018
«Il mio esame di Stato fra timbri, firme e scherzi a una collega precisina»
L’anno scorso sono stati i miei primi esami di Stato da insegnante. Ignoravo le procedure, non sapevo niente, però ero docile ed eseguivo: mi davano delle cose da fare e io le facevo. Insieme a me c’era una collega giovane, anche per lei erano i primi esami, però lei era preparata e molto meticolosa. Solo che era anche una che andava facilmente in ansia. Io invece più che altro timbravo un sacco di fogli. La collega non timbrava mai. Controllava in continuazione le firme, e gliene mancava sempre una.
Allora correva in segreteria e urlava all’amministrativa: «Deve richiamare tutti i componenti della commissione e dirgli di tornare a scuola immediatamente!». Quella, poverina, si attaccava al telefono e i componenti della commissione bestemmiavano in turco, che ormai erano quasi arrivati a casa. Allora io sentivo queste grida che, detto con sincerità, intento com’ero a timbrare con vigore, mi infastidivano non poco, mi alzavo dalla sedia e andavo anch’io in segreteria per capire costa stava succedendo. Ci trovavo la collega scossa, con in mano il telefono e un sacco di fogli di carta che le andavano cadendo da tutte le parti. Lei non si calmava mai.
Il giorno dopo entrava come una furia nell’aula dove mi ero rinchiuso a perfezionare i miei timbri, e strillava: «Ma dove sono finiti tutti quanti? I colleghi erano nell’aula predisposta per le firme, solo che era stata cambiata e lei non lo sapeva. Io allora le dicevo: «Sono tutti al bar, non è un’indecenza?». Lei chiamava il bar e urlava nella cornetta: «Dica ai miei ai colleghi di tornare a scuola immediatamente!». Il barista provava a dire: «Guardi che qua non c’è ness…», però niente, lei strabuzzava gli occhi e diceva: «Ma non è possibile! Non hanno ancora firmato niente!» E io: «Sono impiegati statali, è gente senza scrupoli». E lei: «Ma adesso come si fa?» E io, dopo una lunga pausa: «Una soluzione in effetti ci sarebbe». «E quale?», diceva lei. «Ti metti di là e firmi tu al posto loro». A quel punto le si leggeva negli occhi lo scandalo, assumeva una posa ieratica e mi rispondeva: «Non starai parlando di firme false, vero?». E io, con freddezza: «È l’unica soluzione». E lei: «Ma è illegale!». Io allora le andavo vicino e le sussurravo: «Senti, sono le otto di sera, qua dentro siamo rimasti solo io e te, e di me ti puoi fidare ciecamente, non dirò mai niente a nessuno». La sentivo vacillare. Mi godevo quell’istante. Poi le mettevo sotto al naso la pila di fogli da firmare e le porgevo una penna: «Tieni, fallo!», «Ma come», tentennava lei. «Firma!» le urlavo io, «È per il bene della scuola! Della Repubblica! È ragion di Stato!» Lei afferrava la penna e si accingeva a prelevare il primo dei fogli dalla pila. Ma in quel momento io portavo all’orecchio il cellulare e dicevo a voce alta: «Pronto, Polizia?» Allora lei scoppiava a piangere. Io mi intenerivo e le dicevo: «Tranquilla, non è vero niente, i colleghi non sono mai andati al bar, sono tutti in un’altra classe per le firme, calmati». Lei lentamente si rianimava. Solo a quel punto le davo il colpo di grazia: «Comunque le uniche firme che mancavano erano le tue, ho dovuto firmare io al posto tuo». E lei: «Ma è una cosa illegale! Un falso in atto d’ufficio!» E io: «Cos’altro volevi che facessi?» Allora lei scoppiava di nuovo in lacrime e diceva: «Ma perché mi fai questo?» E io: «Perché sono cattivo. Per timbrare come Dio comanda ho bisogno che qualcuno soffra».