la Repubblica, 20 giugno 2018
Cosa avrà in testa quel robot?
«Quando studiavo all’università ripetevano sempre: “La mente? Lasciala perdere. Non abbiamo la tecnologia per comprenderla né per replicare le sue funzioni”. E invece ora abbiamo iniziato a farlo. Stiamo mettendo mano in quello che sembrava impossibile toccare». May-Britt Moser, neuroscienziata norvegese, siede composta in una saletta di Palazzo Re Enzo a Bologna. Il Festival della scienza medica è in pieno svolgimento e gli studenti accorrono in gran numero per ascoltare ospiti come lei. Cinquantacinquenne, premio Nobel nel 2014 insieme a John O’Keefe e all’ex marito Edvard Moser, ha scoperto le griglie di cellule neurali che registrano e ricordano le informazioni sullo spazio. In poche parole la nostra bussola interna. E ora in Germania, alla Ludwig Maximilian University, stanno cercando di replicare quel sistema per inserirlo nei robot. «Lo sa? Non solo cominciamo a comprendere come funziona esattamente il cervello ma stiamo arrivando a manipolare le singole cellule», prosegue. «La riproducibilità della mente in una forma artificiale comincia ad essere possibile». A crederci sono in tanti. Replicare significa aver compreso la sua struttura, dunque poter curare malattie degenerative oggi giudicate incurabili come l’Alzheimer e compiere passi avanti nella corsa all’intelligenza artificiale (Ai) che è al centro della prossima grande rivoluzione industriale.
Henry Markram, discusso neuroscienziato che ha guidato nella sua prima fase l’Human Brain Project con un finanziamento previsto dalla Commissione europea di 1,3 miliardi di euro nel 2013, per anni ha sognato di poter simulare artificialmente il cervello. La strada è quella del “reverse engineering”: studiare nel dettagli un dispositivo per duplicarlo con le sue funzioni. Classe 1962, cattedra al Politecnico di Losanna, sudafricano di nascita ma con passaporto israeliano, Markram si è sposato due volte e ha cinque figli. Uno di loro, Kai, è affetto da autismo. «Vorrei essere in grado di entrare nella simulazione della sua mente e vedere il mondo come lui lo vede», disse cinque anni fa quando ancora parlava con la stampa prima del suo allontanamento dal progetto. Il sogno è antico e sogno è rimasto a lungo. Quando in Giappone nel 2013 usarono gli 83mila processori del super elaboratore K-computer, fra i più potenti al mondo, per riprodurre un secondo di attività cerebrale servirono ben quaranta minuti. Ma Markram fin dal 2009 sosteneva fosse possibile simulare matematicamente il comportamento degli 86 miliardi di neuroni del nostro cervello. «Ci riusciremo in 10 anni. E alla fine potremo dialogare con degli ologrammi», promise. Da Hal 9000, il computer di 2001 Odissea nello Spazio, all’assistente virtuale Samantha di Lei in un solo annuncio. Le ambizioni di Markram, definito in seguito un “genio fuori controllo”, si sono scontrate con i risultati scarsissimi ottenuti. Alla fine è stato sollevato dal suo incarico, quasi metà dei finanziamenti sono stati sospesi, l’intero progetto reindirizzato. Oggi tutte le iniziative analoghe, dal Brain Initiative Cina, si guardano bene dal fare promesse.
«Non so se è il giusto approccio. Un conto è riuscire a simulare la nostra mente e le sue funzioni, un altro è arrivarci costruendo una macchina che ha la stessa struttura complessa e integrata del cervello», commenta Marcello Massimini, neuroscienziato italiano dell’Università di Milano che con il collega Giulio Tononi dell’Università del Wisconsin ha scritto Nulla di più grande. Il saggio ha questo sottotitolo: Dalla veglia al sonno, dal coma al sogno. Il segreto della coscienza e della sua misura. «Se la coscienza è il risultato delle nostre esperienze e della struttura interna del cervello, una “semplice” elaborazione matematica potrà forse imitare alcune funzioni ma non la coscienza e il nostro modo di fare esperienza». Per questo Massimini trova di gran lunga più interessanti non tanto i computer quantistici, che sono altro da noi, quanto quelli neuromorfici. Invece di svolgere calcoli basati su codici binari ( acceso e spento), i loro processori funzionano scambiandosi segnali come fanno i neuroni. I vantaggi sono una velocità infinitamente maggiore, dimensioni ridotte, soprattutto una vera somiglianza alla nostra mente. In Europa siamo all’avanguardia in questo campo ed è una fortuna, sempre che le idee di Tononi e Massimini si dimostrino corrette. La teoria dell’informazione integrata di Tononi sostiene che la coscienza è il frutto di esperienze integrate e interconnesse fra loro, che a loro volta sono rese possibili dall’unicità della corteccia cerebrale. Il procedimento qui è inverso a quello di Markram: non si parte dalla struttura del cervello, ma dalla fenomenologia della coscienza per risalire alla parte fisica. Ed avendo ridotto la coscienza in unità minime, dette Phi, la rende anche misurabile. Il sonno profondo, quando la coscienza scompare malgrado i neuroni siano in funzione, sempre secondo Tononi svolgerebbe un ruolo determinante nel riequilibrare le esperienze soggettive e legarle fra loro in un unico mosaico. Per le macchine invece è impossibile, non sono in grado di trasferire una conoscenza acquisita in un campo ad un altro settore, anche se molto vicino, – dal gioco del Go a quello degli scacchi ad esempio, – e hanno processi di apprendimento molto più lunghi. A noi bastano tre o quattro immagini per imparare come è fatto un certo oggetto o un animale, una Ai deve sfogliarne decine di migliaia, se non milioni. Il merito di questa differenza starebbe anche nel sonno. Non si spiegherebbe altrimenti dal punto di vista evolutivo la sopravvivenza di uno stato del genere, che prende un terzo della nostra esistenza e durante il quale siamo così vulnerabili.
«La mente è un sistema molto efficiente e complesso da tanti punti di vista», conclude May- Britt Moser. «Replicarla oggi significherebbe costruire una macchina che divora energia. Ma stanno addestrando le Ai ad apprendere come fanno i bambini. Prima o poi risolveranno anche il problema energetico». E magari un domani insegneranno ai computer neuromorfici perfino a dormire. Questione di tempo, pare.